mercoledì 30 giugno 2010

Contare qualcosa

Dicono tutti che io sono il matematico, e non è vero.
Semmai sono un entusiasta della matematica, che sono convinto non essere neppure quello che la gente pensa. Per inciso, la matematica non ha molto a che fare con i numeri, secondo me. Le parole vicine alla matematica potrebbero essere: generalizzazionedimostrazioneindagineordine,verità; quindi, molto di più e molto più lontano dei numeri.
Ma mi interessa la matematica come l’animo degli uomini, che la fanno o non la fanno, la matematica. Mi interessa l’animo degli uomini quando gli uomini non si comportano in modo lineare. Forse sempre.
Nella mia esperienza, chi ha un atteggiamento da matematico, nella vita di tutti i giorni (capite cosa voglio dire, vero?), lui in generale è una persona buona. Lui in generale ci tiene all’ordine del mondo, piuttosto che a sopraffare il prossimo. Piuttosto si lascia sopraffare, ma osservando un certo ordine; sperando di essere sopraffatto senza creare disordine.
I calcoli, lui, li fa senza considerare gli interessi propri o altrui: forse è una patologia, non ne sono sicuro (ma cosa non è una patologia, qua dentro?), ma lui non riesce a considerare il proprio tornaconto; ripeto: lui tiene solo all’ordine delle cose, ed è convinto che lasciare due oggetti sul tavolo paralleli o perpendicolari tra di loro crei più armonia nel mondo che lasciarli casualmente orientati. Crede che il mondo gliene sarà grato, e che il prossimo che userà quegli oggetti sarà agevolato dal suo gesto, e inoltre ne trarrà bellezza. E questo è sacrosanto per lui.
E chi la disprezza, la matematica (troppo spesso senza sapere bene cosa sia), che fa, invece?
Di solito fa i calcoli sugli uomini.
Di solito fa questo per sopraffarli, per impadronirsi di loro.
Non so se sia una patologia, neppure questa.
So che nella storia non si è mai visto un governo di illuminati che abbiano applicato la matematica e la logica al modo di governare; e questo già significa che i matematici o sono più deboli o non è sulla loro strada l’obiettivo e la capacità di governare – di impossessarsi degli altri, dunque.

domenica 14 febbraio 2010

Non lo so come ti avrei chiamato

Non lo so come ti avrei chiamato.
Ho pensato al tuo nome da quando ero ragazzo; poi un giorno ho letto di un tale che si chiamava Anam, che in una qualche lingua arcaica deve suonare come “Senza nome”. Qualcosa di simile.
Rimasi affascinato, e pensai che avrei potuto chiamarti così. Un nome che non esiste, il nome più importante, pensavo.
Poi devo aver smesso di pensare al tuo nome.
Quando ho capito che la tua esistenza era in pericolo, devo aver smesso di preoccuparmi del superfluo, se un nome è una cosa superflua.
Ho probabilmente scelto la cosa più egoistica, quando ho creduto che sarebbe stato molto difficile cercare di fare di tutto per darti la vita in una situazione instabile, ed ho deciso insieme che sarebbe stato meglio per me continuare sulla mia strada, già incerta di suo.
Ho fatto il mio interesse, giudicando troppo improbabile il tuo.
Il cuore e gli occhi e le mani di quei giorni mi hanno fatto prendere quelle decisioni, sulle quali non è possibile ritornare.
Ora posso solo riflettere sulla tua perfetta non esistenza.
Se mai ci fosse una mistica attendibile, se mai avesse senso pensare alla tua non esistenza come a un qualcosa di ragionevole, a un qualcosa di sensato, io sarei felice, e avrebbe un senso il tuo non essere qui.
Se mai la non esistenza si potesse davvero pensare come la perfezione, io sarei contento per te, sarei orgoglioso di essere padre di un figlio perfetto.
Ma questa miseria mi dice solo che tu non ci sei, e non ci sono mistiche amiche.
Io ho sbagliato, ecco tutto. Tra i molti errori che mi lascio dietro, il più grande è la superficialità con la quale ho permesso che tu non ci fossi, per un verso o per l’altro.
Non è umano, questo; non è giusto, davanti al mondo. L’autore dell’ingiustizia sono io, o il mondo, indifferentemente.
Se sia un atto di egoismo il diventare padre o il volerlo essere, questo è da discutere.
Ma se tu esistessi, allora io avrei delle cose da trasmetterti, come delle cose dalle quali metterti in guardia, e, al contrario, sarebbe strano e insensato se non ne avessi.
Sarebbero principi miei, giusti o sbagliati secondo altri, e non ci sono cose giuste o sbagliate senza il giudizio di qualcuno.
Sarebbero idee che mi sono fatto, o che ho fatto mie riprendendole da qualcuno. Sarebbero senza dubbio cose piacevoli per me, che tu sceglieresti di seguire o di abbandonare. Potrei insegnarti un sacco di cose e la loro meraviglia; a modo mio, certo, il modo che io ritengo migliore. Ma che per te sarebbe rimasto memorabile per natura.
Ma tu non ci sei, e questo mi limita molto.
Sapessi com’è terribile sentirsi al capolinea di una ferrovia che non porta da nessun’altra parte, percorsa da un treno che va solo in verso, e che è già arrivato.
Sapessi com’è brutto avere dei principi e delle idee che altri possono solo criticare, ma che non si possono riporre da nessun’altra parte, “salvandoli” da quegli sguardi e da quelle bocche e da quei giudizi. Io li avrei salvati dandoli a te, perché tu li portassi nella prossima stazione, pur se in un altra stagione, pur se alterate dal viaggio. Qualcosa però sarebbe arrivato, e questo mi avrebbe fatto sentire al mio posto; perché credo che questo sia un fine dell’esistenza – lo sento.
Invece, senza di te non ho modo né ragione di invocarli, i miei principi; nessuno mi chiederà infatti quello che ha già, in abbondanza.
Strane trappole del mondo. La natura esige una cosa, e se non gliela dai, te la fa pagare; e non ha torto.
Questo sono io, oggi, e per quanto io possa cambiare, domani, credo di averla fatta davvero grossa per la vita.