martedì 4 aprile 2023

Tractatus

4/4/2023

1. Il mondo è tutto ciò che accade.

Il mondo non è uno solo, come molti sono portati a credere.
Esistono scenari, gesti, persone, che trascendono il mondo come lo conosciamo, e ne hanno uno proprio, consistente quanto il nostro, che confina col nostro, a tratti si fonde col nostro, a tratti lo compenetra.
Qualche volta il nostro mondo non fa fatica a farsi compenetrare da altri mondi; qualche volta si fanno guerre; qualche volta si rimane curiosi, o impauriti, o delusi, o attratti, e ti viene da fare di tutto per creare un ponte, una fusione, per tendere a far sì che i due mondi diventino alla fine uno solo, per risolvere la tensione.
Ma l'insegnamento più grande è che esistono comunque più mondi, diversi dal tuo, egualmente consistenti, tanto diversi da lasciarti senza fiato, se hai la sensibilità per cogliere quella diversità così abissale, tanto evidente quanto – a volte – invisibile (Est l'essentiel invisible pour les yeux?).
Non ti scandalizzerai di questo.
Se il tuo amore (lèggi tolleranza, capacità di sopportazione, umiltà, volontà di fusione con l'ignoto, curiosità, disponibilità a cambiare veramente) ti permetterà di andare sulla strada del riconoscimento di quel mondo e ti permetterà di farlo anche tuo, e di compiacerti di questo, sarai al tuo posto.
Accadranno cose insolite, per te. Non le capirai. Non le accetterai. Sanguinerai, te lo giuro. Ma se vorrai andare avanti, sarai al tuo posto.
Quando riconoscerai che il mondo altrui non è scandaloso, non è irto di insidie come avevi creduto, non è impraticabile, ed è perfettamente equivalente al tuo se visto da sufficientemente alto, allora sarai al tuo posto.
Ah: non c'entra l'etica, la bontà, la disponibilità per gli altri.
È solo un fatto di sopravvivenza. Valgono solo le leggi dell'evoluzione. Se non fai così, verrai soppresso, stop. Non c'è altro, dammi retta.

2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.

I fatti emergono dalla complessità del mondo, e per questo non sono prevedibili. Troppe variabili.
Spesso non sono gestibili. Spesso sono incomprensibili perché (vedi sotto) il pensiero che li dovrebbe classificare, raccogliere, gestire, emerge allo stesso modo dalla stessa complessità.
La complessità del mondo è la determinante della nostra esistenza. Non permette di andare oltre un primo livello incerto, sfocato, non inquadrabile in verità o falsità come vorremmo che fosse.
Ma noi ci ostiniamo a pensare che i fatti siano classificabili, inquadrabili, formalizzabili in schemi di verità e falsità, 1 o 0, nero o bianco.
Invece ogni fatto sarà analizzato in modo puramente soggettivo, facendo emergere a sua volta una narrazione che lo descrive, diversa per ognuno, pur riferentesi allo stesso identico scenario.

3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.

Il pensiero è solo una nostra immagine dei fatti, mediati dal desiderio, dalle aspettative, dalle credenze.
Io sono riuscito al momento a sconfiggere le ultime, le credenze, grazie a una impostazione mentale di tipo scientifico, della quale, per definizione, non ho certezza, ma tendo ad alimentare come tale.
Il desiderio e le aspettative non hanno da essere sconfitti, non ha senso pensarlo.
Sono il motore di ogni azione umana, e vengono contrastati, filtrati, distorti solo dalle credenze.
Metto anche l'etica tra le credenze, la morale, e talvolta perfino il buon senso, o almeno il senso comune.
Tra le credenze metto anche ogni altro condizionamento culturale, cioè la totalità delle interazioni sociali estemporanee e storiche, quali quelle tramandate dai nostri predecessori. La religione è ovviamente la più deleteria di tutte, pur avendo un fondamento evoluzionistico.
In un essere pensante, razionale o irrazionale che sia, il desiderio è la causa principale di ogni azione, gesto, idea, analisi, correlazione, aspettativa.
Le aspettative sono a loro volta impostazioni atte a determinare esiti favorevoli (felicità) o sfavorevoli (infelicità) conseguenti.
Desideri e aspettative che prescindano da ogni condizionamento culturale (credenza) determinano completamente le idee e le azioni, senza eccezione. Questo è il punto fondamentale.
Ogni comportamento umano va analizzato a partire dal desiderio e dalle aspettative, che rendono unico ogni comportamento, alla stregua di modelli di pensiero.
Soprattutto, desideri e aspettative classificano i modelli di pensiero.
Se avessimo a disposizione la formalizzazione matematica di ogni possibile desiderio e aspettativa, potremmo ricavarne un'algebra per classificare e forse prevedere il comportamento di ognuno.
Il dolore e la felicità sono ovviamente funzioni degli esiti di entrambi.
È curioso constatare che le aspettative hanno un aspetto per il quale più esseri pensanti potrebbero confrontarsi tra loro riconoscendone comunanza; ma anche una volta riconosciute aspettative comuni, o loro modelli, non è detto che un essere pensante sia disposto, consciamente o meno, a soddisfare aspettative di un proprio simile, neanche quando esse siano coincidenti con le proprie. Le diramazioni di questi comportamenti (consci/inconsci, con attenzione/noncuranti, per bontà/per cattiveria, ecc.) sono molteplici, e ritornano alla complessità di cui sopra; qui, avendo tolto di mezzo ogni condizionamento culturale che potrebbe fungere da metro di giudizio per buona parte delle diramazioni suddette, non faremo altro che notare quanto sia curioso questo comportamento umano.
Ancora, e infine: se vuoi intuire il comportamento di un essere umano sufficientemente intelligente, guarda ai suoi desideri e alle sue aspettative, ignorando del tutto ogni suo possibile condizionamento culturale, spietatamente, e saprai dove e cosa cercare.
 

4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.

Il pensiero non può che essere espresso tramite un linguaggio.
Ma le proposizioni (munite di senso) non sono in generale in corrispondenza biunivoca con i pensieri.
Forse non lo sono neanche internamente al modo di ragionare di ogni singolo soggetto, perché variano non solo nel tempo, ma anche in funzione istantanea di desideri e aspettative, come enunciato sopra, generando un ulteriore aumento della complessità.
Inoltre il linguaggio non è universale all'interno di una classe di individui.
Ogni individuo avrà sfumature di espressione e di comprensione che rendono difficile fissare in modo univoco i significati.
Non poggiamo su niente neppure a questo livello, e dobbiamo rinunciare alla comprensione totale, in favore di un istinto che non guarda sicuramente verso l'esattezza.
Dunque non aspettarti MAI di capire veramente quello che ti arriva da un qualunque essere distinto da te.
Non hai speranza di capire veramente per diversi motivi distinti: perché la tua esperienza del mondo è per definizione distinta da quella altrui, e quindi in generale quando parlerete non starete parlando della stessa cosa; perché il tuo linguaggio non è quello del tuo interlocutore, sia per sfumature che in profondità; perché le tue aspettative, che tu usi per interpretare ulteriormente il linguaggio, non sono le stesse del tuo interlocutore; per gli eventuali condizionamenti culturali, sempre troppo sottovalutati; per l'incapacità di usare il linguaggio in modo efficiente da parte di entrambi (altro punto enormemente sottovalutato); e continua pure tu la lista, pensando a tutte le inefficienze possibili ed immaginabili riguardo al linguaggio e alla complessità in generale.
Rifletti sul fatto che perfino quello che scrivi tu stesso muta per te di significato dopo un tempo più o meno lungo: l'esempio più sorprendente è il programmatore, che riempie di commenti il suo codice per mettersi in grado di capire quello che aveva scritto dopo giorni, settimane o mesi.
Non hai speranza di capire veramente alcunché, al mondo, se non all'interno della tua testa, in modo totalmente scorrelato e indipendente dalla comprensione altrui.

5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.

Ogni pensiero e ogni proposizione è infatti scomponibile in parti.
Peccato che ogni parte sia a sua volta scomponibile in sotto-parti, sotto-sotto-parti, e così via, e che anche quando arrivassimo agli atomi del sistema rimarrebbe comunque la sfocatura di cui sopra, sempre riconducibile alla complessità del sistema.
Non ci siamo, neppure qui.

6. La forma generale della funzione di verità è: . Questa è la forma generale della proposizione.

I grandi sono coloro che hanno saputo concentrare la propria mente sulle questioni a loro care in modo totale, a costo di ignorare letteralmente il resto del mondo, riuscendo ad arrivare intellettualmente là dove nessuno era mai stato prima.
Le grandi scoperte sono avvenute spesso così, non solo escludendo il rumore del mondo (prendi ad esempio Einstein verso i suoi figli), ma riuscendo a eludere anche buona parte della sua complessità, schematizzandola e risolvendola.
Il costo dev'essere enorme, come del resto la ricompensa finale.
Mi chiedo se i grandi hanno del mondo la visione che ho delineato fin qui o se, come vincitori di una certa complessità, vedano tutto con maggior speranza di poter delineare delle regole, uno schema, e rapporti di causa/effetto più rigidi.
È nemica dell'uomo la complessità?
Non so dirlo, ma so che è inevitabile, che è connaturata al mondo, e che il mondo non sarebbe tale senza di essa.
Riconoscerla è un atto doveroso e propedeutico per capire come siamo fatti, cosa possiamo aspettarci, com'è il caso di comportarsi.
Riconoscerla è doveroso per avere la certezza di non poter poggiare mai su alcunché, e farsene una ragione.

7. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere (ma tutto ciò che può essere detto, si può dire chiaramente).

È il basamento di tutto l'edificio, e nient'altro dev'essere detto.
Tenendo presente, comunque, che se c'è qualcosa di cui si può parlare, allora si può anche parlare.


Grazie, Wittgenstein, per avermi fatto groccare tutto questo.

(Sto dni towarzystwa z iaeą)

domenica 1 gennaio 2023

Estremismi nel Deserto

Il tempo passa, e il mio attuare estremismi si intensifica.

Ho ragione di credere di aver scoperto di recente una delle cause dei miei problemi: il non saper rinunciare ad avere sempre la soluzione che soddisfa al meglio sia me che gli altri, e a fare di tutto per non perdere occasioni. Tutto, dico. Fino al grottesco.

Mi ridono addosso quelli che invece hanno un istinto veloce: loro prendono decisioni, non fanno programmi; per loro va bene risolvere subito, anche prima di aver chiarito per bene il problema. Ne conosco diversi; e non giudico sbagliato il loro atteggiamento. Solo che, io non ci riesco.

Sento anche che la mia attitudine a fare così mi porta spesso a considerare, più della cosa che sto affrontando, quello che c'è intorno. I meta-oggetti. Perché credo che considerazioni allargate (tutte quelle che gli istintivi veloci giudicano assolutamente prive di senso e inutilmente dispendiose) servano comunque a inquadrare meglio il problema (sì, proprio come la cornice conferisce un carattere al dipinto). Non mi direte che non capita mai di trovare soluzioni nel contorno, invece che al cuore del problema…

Tutto questo ha ovviamente una conseguenza: se si persegue la volontà di perfezionamento in ogni cosa, anche nelle faccende di tutti i giorni, si rischia moltissimo di non smettere più di perfezionare. Si rischia di non capire più quale sia il giusto compromesso, per smettere al momento giusto. Banalmente.

Diceva Buzzati in una intervista del 1966, a proposito del suo Il deserto dei Tartari:

quando stavo scrivendolo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della morte.

Il deserto è in effetti la storia che più mi colpì, al tempo, ma non solo per questo.

Mi colpì per il suo ambientamento surreale, al limite del romanzo di fantascienza; per la scelta dei nomi (nessuno mi leva dalla testa che il cognome di Giovanni Drogo, il protagonista, venga dalla radice slava che sta per "strada"); per l'atemporalità assoluta, per il suo calare nella storia reale, di questo mondo, una storia del tutto appartenente ad un altro mondo, una specie di mondo parallelo dove le stesse persone (proprio loro, se ne potrebbe sentire l'odore) vivono altre esperienze, ignare di questo mondo.

Conosco persone che reputano Il deserto un romanzo vuoto, senza trama, senza ideologie. Io invece (in qualche modo rifacendomi anche alla dichiarazione di Buzzati riportata sopra) direi che è uno di quei romanzi che varrebbe la pena leggere anche solo per fare proprio il senso dell'ultima pagina, o meglio dell'ultima frase, che da sola vale tutto il romanzo.

Si trovò seduto su di una larga poltrona, in una camera da letto; ed era una sera stupenda che lasciava entrare dalla finestra l'aria profumata. Drogo guardava atono il cielo che si faceva sempre più azzurro, le ombre violette del vallone, le creste ancora immerse nel sole. La Fortezza era lontana, non si scorgevano più nemmeno le sue montagne.

Doveva essere quella una sera di felicità per gli uomini anche di media fortuna. Giovanni pensò alla città nel crepuscolo, le dolci ansie della nuova stagione, giovani coppie nei viali lungo il fiume, dalle finestre già accese accordi di pianoforte, il fischio di un treno da lontano. Immaginò i fuochi del bivacco nemico in mezzo alla pianura del nord, le lanterne della Fortezza che oscillavano al vento, la notte insonne e meravigliosa prima della battaglia. Tutti in un modo o nell'altro avevano qualche motivo, anche piccolo, per sperare, tutti fuori che lui.

Di sotto, nella sala comune, un uomo, poi due insieme, si erano messi a cantare, una specie di canzone popolare di amore. Nel sommo del cielo, là dove l'azzurro si faceva profondo, brillarono tre o quattro stelle. Drogo era solo nella camera, l'attendente era sceso a bere un bicchiere, negli angoli e sotto i mobili si accumulavano ombre sospette. Giovanni per un istante sembrò non resistere (nessuno in fin dei conti lo vedeva, nessuno lo avrebbe saputo al mondo), il maggiore Drogo per un istante sentì che il duro carico dell'animo suo stava per rompere in pianto.

Proprio allora dai fondi recessi uscì limpido e tremendo un nuovo pensiero: la morte. Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme, e attorno né una casa né un albero né un uomo, tutto così da immemorabile tempo.

Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un'ombra progressiva e concentrica, era forse questione di ore, forse di settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte. La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un'orgogliosa scommessa tutto era stato perduto.

Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all'occidente tuttavia restava una striscia di luce, sopra i violetti profili delle montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del letto, la lucida sciabola di Drogo. Di là - capiva - egli non si sarebbe più mosso. Avvolto così dalle tenebre, mentre di sotto continuavano le dolci canzoni fra gli arpeggi di una chitarra, Giovanni Drogo sentì allora nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato, respinto dalla Fortezza come peso importuno, lui che era rimasto indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l'intera vita.

Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l'ultimo nemico. Non uomini simili a lui, tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e maligno; non c'era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l'acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo.

Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere bello morire all'aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d'ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo.

"Coraggio, Drogo, questa è l'ultima carta, va' incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell'ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare."

Questo, Giovanni diceva a se stesso - una specie di preghiera - sentendo stringersi attorno a sé il cerchio conclusivo della vita. E dall'amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle cattiverie patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare. Con inesprimibile gioia Giovanni Drogo si accorse, d'improvviso, di essere assolutamente tranquillo, ansioso quasi di ricominciare la prova. Ah, non si poteva pretendere tutto dalla vita? Così dunque, Simeoni? Adesso Drogo ti farà un po' vedere.

Coraggio, Drogo. E lui provò a fare forza, a tenere duro, a scherzare con il pensiero tremendo. Ci mise tutto l'animo suo, in uno slancio disperato, come se partisse all'assalto da solo contro un'armata. E subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono, la morte perse l'agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l'immenso portale nero e si accorse che i battenti cedevano, aprendo il passo alla luce.

Povera cosa gli risultò allora quell'affannarsi sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa. Non c'era neanche più bisogno di invidiare Angustina. Sì, Angustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se n'era andato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliato fra ignota gente.

Solo gli dispiaceva di doversene andare di là con quel suo misero corpo, le ossa sporgenti, la pelle biancastra e flaccida. Angustina era morto intatto - pensava Giovanni - la sua immagine, nonostante gli anni, si era mantenuta quella di un giovane alto e delicato, dal volto nobile e gradito alle donne: questo il suo privilegio. Ma chissà che, passata la nera soglia, anche lui Drogo non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perché bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza. Che gioia, si diceva Drogo al pensiero, come un bambino, poiché si sentiva stranamente libero e felice.

Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? Se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura? Se dipendesse solo dal meraviglioso tramonto, dall'aria profumata, dalla pausa dei dolori fisici, dalle canzoni al piano di sotto? E fra pochi minuti, fra un'ora, egli dovesse tornare il Drogo di prima, debole e sconfitto?

No, non pensarci, Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare.

La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.