domenica 14 febbraio 2010

Non lo so come ti avrei chiamato

Non lo so come ti avrei chiamato.
Ho pensato al tuo nome da quando ero ragazzo; poi un giorno ho letto di un tale che si chiamava Anam, che in una qualche lingua arcaica deve suonare come “Senza nome”. Qualcosa di simile.
Rimasi affascinato, e pensai che avrei potuto chiamarti così. Un nome che non esiste, il nome più importante, pensavo.
Poi devo aver smesso di pensare al tuo nome.
Quando ho capito che la tua esistenza era in pericolo, devo aver smesso di preoccuparmi del superfluo, se un nome è una cosa superflua.
Ho probabilmente scelto la cosa più egoistica, quando ho creduto che sarebbe stato molto difficile cercare di fare di tutto per darti la vita in una situazione instabile, ed ho deciso insieme che sarebbe stato meglio per me continuare sulla mia strada, già incerta di suo.
Ho fatto il mio interesse, giudicando troppo improbabile il tuo.
Il cuore e gli occhi e le mani di quei giorni mi hanno fatto prendere quelle decisioni, sulle quali non è possibile ritornare.
Ora posso solo riflettere sulla tua perfetta non esistenza.
Se mai ci fosse una mistica attendibile, se mai avesse senso pensare alla tua non esistenza come a un qualcosa di ragionevole, a un qualcosa di sensato, io sarei felice, e avrebbe un senso il tuo non essere qui.
Se mai la non esistenza si potesse davvero pensare come la perfezione, io sarei contento per te, sarei orgoglioso di essere padre di un figlio perfetto.
Ma questa miseria mi dice solo che tu non ci sei, e non ci sono mistiche amiche.
Io ho sbagliato, ecco tutto. Tra i molti errori che mi lascio dietro, il più grande è la superficialità con la quale ho permesso che tu non ci fossi, per un verso o per l’altro.
Non è umano, questo; non è giusto, davanti al mondo. L’autore dell’ingiustizia sono io, o il mondo, indifferentemente.
Se sia un atto di egoismo il diventare padre o il volerlo essere, questo è da discutere.
Ma se tu esistessi, allora io avrei delle cose da trasmetterti, come delle cose dalle quali metterti in guardia, e, al contrario, sarebbe strano e insensato se non ne avessi.
Sarebbero principi miei, giusti o sbagliati secondo altri, e non ci sono cose giuste o sbagliate senza il giudizio di qualcuno.
Sarebbero idee che mi sono fatto, o che ho fatto mie riprendendole da qualcuno. Sarebbero senza dubbio cose piacevoli per me, che tu sceglieresti di seguire o di abbandonare. Potrei insegnarti un sacco di cose e la loro meraviglia; a modo mio, certo, il modo che io ritengo migliore. Ma che per te sarebbe rimasto memorabile per natura.
Ma tu non ci sei, e questo mi limita molto.
Sapessi com’è terribile sentirsi al capolinea di una ferrovia che non porta da nessun’altra parte, percorsa da un treno che va solo in verso, e che è già arrivato.
Sapessi com’è brutto avere dei principi e delle idee che altri possono solo criticare, ma che non si possono riporre da nessun’altra parte, “salvandoli” da quegli sguardi e da quelle bocche e da quei giudizi. Io li avrei salvati dandoli a te, perché tu li portassi nella prossima stazione, pur se in un altra stagione, pur se alterate dal viaggio. Qualcosa però sarebbe arrivato, e questo mi avrebbe fatto sentire al mio posto; perché credo che questo sia un fine dell’esistenza – lo sento.
Invece, senza di te non ho modo né ragione di invocarli, i miei principi; nessuno mi chiederà infatti quello che ha già, in abbondanza.
Strane trappole del mondo. La natura esige una cosa, e se non gliela dai, te la fa pagare; e non ha torto.
Questo sono io, oggi, e per quanto io possa cambiare, domani, credo di averla fatta davvero grossa per la vita.