martedì 4 aprile 2023

Tractatus

4/4/2023

1. Il mondo è tutto ciò che accade.

Il mondo non è uno solo, come molti sono portati a credere.
Esistono scenari, gesti, persone, che trascendono il mondo come lo conosciamo, e ne hanno uno proprio, consistente quanto il nostro, che confina col nostro, a tratti si fonde col nostro, a tratti lo compenetra.
Qualche volta il nostro mondo non fa fatica a farsi compenetrare da altri mondi; qualche volta si fanno guerre; qualche volta si rimane curiosi, o impauriti, o delusi, o attratti, e ti viene da fare di tutto per creare un ponte, una fusione, per tendere a far sì che i due mondi diventino alla fine uno solo, per risolvere la tensione.
Ma l'insegnamento più grande è che esistono comunque più mondi, diversi dal tuo, egualmente consistenti, tanto diversi da lasciarti senza fiato, se hai la sensibilità per cogliere quella diversità così abissale, tanto evidente quanto – a volte – invisibile (Est l'essentiel invisible pour les yeux?).
Non ti scandalizzerai di questo.
Se il tuo amore (lèggi tolleranza, capacità di sopportazione, umiltà, volontà di fusione con l'ignoto, curiosità, disponibilità a cambiare veramente) ti permetterà di andare sulla strada del riconoscimento di quel mondo e ti permetterà di farlo anche tuo, e di compiacerti di questo, sarai al tuo posto.
Accadranno cose insolite, per te. Non le capirai. Non le accetterai. Sanguinerai, te lo giuro. Ma se vorrai andare avanti, sarai al tuo posto.
Quando riconoscerai che il mondo altrui non è scandaloso, non è irto di insidie come avevi creduto, non è impraticabile, ed è perfettamente equivalente al tuo se visto da sufficientemente alto, allora sarai al tuo posto.
Ah: non c'entra l'etica, la bontà, la disponibilità per gli altri.
È solo un fatto di sopravvivenza. Valgono solo le leggi dell'evoluzione. Se non fai così, verrai soppresso, stop. Non c'è altro, dammi retta.

2. Ciò che accade, il fatto, è il sussistere di stati di cose.

I fatti emergono dalla complessità del mondo, e per questo non sono prevedibili. Troppe variabili.
Spesso non sono gestibili. Spesso sono incomprensibili perché (vedi sotto) il pensiero che li dovrebbe classificare, raccogliere, gestire, emerge allo stesso modo dalla stessa complessità.
La complessità del mondo è la determinante della nostra esistenza. Non permette di andare oltre un primo livello incerto, sfocato, non inquadrabile in verità o falsità come vorremmo che fosse.
Ma noi ci ostiniamo a pensare che i fatti siano classificabili, inquadrabili, formalizzabili in schemi di verità e falsità, 1 o 0, nero o bianco.
Invece ogni fatto sarà analizzato in modo puramente soggettivo, facendo emergere a sua volta una narrazione che lo descrive, diversa per ognuno, pur riferentesi allo stesso identico scenario.

3. L'immagine logica dei fatti è il pensiero.

Il pensiero è solo una nostra immagine dei fatti, mediati dal desiderio, dalle aspettative, dalle credenze.
Io sono riuscito al momento a sconfiggere le ultime, le credenze, grazie a una impostazione mentale di tipo scientifico, della quale, per definizione, non ho certezza, ma tendo ad alimentare come tale.
Il desiderio e le aspettative non hanno da essere sconfitti, non ha senso pensarlo.
Sono il motore di ogni azione umana, e vengono contrastati, filtrati, distorti solo dalle credenze.
Metto anche l'etica tra le credenze, la morale, e talvolta perfino il buon senso, o almeno il senso comune.
Tra le credenze metto anche ogni altro condizionamento culturale, cioè la totalità delle interazioni sociali estemporanee e storiche, quali quelle tramandate dai nostri predecessori. La religione è ovviamente la più deleteria di tutte, pur avendo un fondamento evoluzionistico.
In un essere pensante, razionale o irrazionale che sia, il desiderio è la causa principale di ogni azione, gesto, idea, analisi, correlazione, aspettativa.
Le aspettative sono a loro volta impostazioni atte a determinare esiti favorevoli (felicità) o sfavorevoli (infelicità) conseguenti.
Desideri e aspettative che prescindano da ogni condizionamento culturale (credenza) determinano completamente le idee e le azioni, senza eccezione. Questo è il punto fondamentale.
Ogni comportamento umano va analizzato a partire dal desiderio e dalle aspettative, che rendono unico ogni comportamento, alla stregua di modelli di pensiero.
Soprattutto, desideri e aspettative classificano i modelli di pensiero.
Se avessimo a disposizione la formalizzazione matematica di ogni possibile desiderio e aspettativa, potremmo ricavarne un'algebra per classificare e forse prevedere il comportamento di ognuno.
Il dolore e la felicità sono ovviamente funzioni degli esiti di entrambi.
È curioso constatare che le aspettative hanno un aspetto per il quale più esseri pensanti potrebbero confrontarsi tra loro riconoscendone comunanza; ma anche una volta riconosciute aspettative comuni, o loro modelli, non è detto che un essere pensante sia disposto, consciamente o meno, a soddisfare aspettative di un proprio simile, neanche quando esse siano coincidenti con le proprie. Le diramazioni di questi comportamenti (consci/inconsci, con attenzione/noncuranti, per bontà/per cattiveria, ecc.) sono molteplici, e ritornano alla complessità di cui sopra; qui, avendo tolto di mezzo ogni condizionamento culturale che potrebbe fungere da metro di giudizio per buona parte delle diramazioni suddette, non faremo altro che notare quanto sia curioso questo comportamento umano.
Ancora, e infine: se vuoi intuire il comportamento di un essere umano sufficientemente intelligente, guarda ai suoi desideri e alle sue aspettative, ignorando del tutto ogni suo possibile condizionamento culturale, spietatamente, e saprai dove e cosa cercare.
 

4. Il pensiero è la proposizione munita di senso.

Il pensiero non può che essere espresso tramite un linguaggio.
Ma le proposizioni (munite di senso) non sono in generale in corrispondenza biunivoca con i pensieri.
Forse non lo sono neanche internamente al modo di ragionare di ogni singolo soggetto, perché variano non solo nel tempo, ma anche in funzione istantanea di desideri e aspettative, come enunciato sopra, generando un ulteriore aumento della complessità.
Inoltre il linguaggio non è universale all'interno di una classe di individui.
Ogni individuo avrà sfumature di espressione e di comprensione che rendono difficile fissare in modo univoco i significati.
Non poggiamo su niente neppure a questo livello, e dobbiamo rinunciare alla comprensione totale, in favore di un istinto che non guarda sicuramente verso l'esattezza.
Dunque non aspettarti MAI di capire veramente quello che ti arriva da un qualunque essere distinto da te.
Non hai speranza di capire veramente per diversi motivi distinti: perché la tua esperienza del mondo è per definizione distinta da quella altrui, e quindi in generale quando parlerete non starete parlando della stessa cosa; perché il tuo linguaggio non è quello del tuo interlocutore, sia per sfumature che in profondità; perché le tue aspettative, che tu usi per interpretare ulteriormente il linguaggio, non sono le stesse del tuo interlocutore; per gli eventuali condizionamenti culturali, sempre troppo sottovalutati; per l'incapacità di usare il linguaggio in modo efficiente da parte di entrambi (altro punto enormemente sottovalutato); e continua pure tu la lista, pensando a tutte le inefficienze possibili ed immaginabili riguardo al linguaggio e alla complessità in generale.
Rifletti sul fatto che perfino quello che scrivi tu stesso muta per te di significato dopo un tempo più o meno lungo: l'esempio più sorprendente è il programmatore, che riempie di commenti il suo codice per mettersi in grado di capire quello che aveva scritto dopo giorni, settimane o mesi.
Non hai speranza di capire veramente alcunché, al mondo, se non all'interno della tua testa, in modo totalmente scorrelato e indipendente dalla comprensione altrui.

5. La proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari.

Ogni pensiero e ogni proposizione è infatti scomponibile in parti.
Peccato che ogni parte sia a sua volta scomponibile in sotto-parti, sotto-sotto-parti, e così via, e che anche quando arrivassimo agli atomi del sistema rimarrebbe comunque la sfocatura di cui sopra, sempre riconducibile alla complessità del sistema.
Non ci siamo, neppure qui.

6. La forma generale della funzione di verità è: . Questa è la forma generale della proposizione.

I grandi sono coloro che hanno saputo concentrare la propria mente sulle questioni a loro care in modo totale, a costo di ignorare letteralmente il resto del mondo, riuscendo ad arrivare intellettualmente là dove nessuno era mai stato prima.
Le grandi scoperte sono avvenute spesso così, non solo escludendo il rumore del mondo (prendi ad esempio Einstein verso i suoi figli), ma riuscendo a eludere anche buona parte della sua complessità, schematizzandola e risolvendola.
Il costo dev'essere enorme, come del resto la ricompensa finale.
Mi chiedo se i grandi hanno del mondo la visione che ho delineato fin qui o se, come vincitori di una certa complessità, vedano tutto con maggior speranza di poter delineare delle regole, uno schema, e rapporti di causa/effetto più rigidi.
È nemica dell'uomo la complessità?
Non so dirlo, ma so che è inevitabile, che è connaturata al mondo, e che il mondo non sarebbe tale senza di essa.
Riconoscerla è un atto doveroso e propedeutico per capire come siamo fatti, cosa possiamo aspettarci, com'è il caso di comportarsi.
Riconoscerla è doveroso per avere la certezza di non poter poggiare mai su alcunché, e farsene una ragione.

7. Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere (ma tutto ciò che può essere detto, si può dire chiaramente).

È il basamento di tutto l'edificio, e nient'altro dev'essere detto.
Tenendo presente, comunque, che se c'è qualcosa di cui si può parlare, allora si può anche parlare.


Grazie, Wittgenstein, per avermi fatto groccare tutto questo.

(Sto dni towarzystwa z iaeą)

domenica 1 gennaio 2023

Estremismi nel Deserto

Il tempo passa, e il mio attuare estremismi si intensifica.

Ho ragione di credere di aver scoperto di recente una delle cause dei miei problemi: il non saper rinunciare ad avere sempre la soluzione che soddisfa al meglio sia me che gli altri, e a fare di tutto per non perdere occasioni. Tutto, dico. Fino al grottesco.

Mi ridono addosso quelli che invece hanno un istinto veloce: loro prendono decisioni, non fanno programmi; per loro va bene risolvere subito, anche prima di aver chiarito per bene il problema. Ne conosco diversi; e non giudico sbagliato il loro atteggiamento. Solo che, io non ci riesco.

Sento anche che la mia attitudine a fare così mi porta spesso a considerare, più della cosa che sto affrontando, quello che c'è intorno. I meta-oggetti. Perché credo che considerazioni allargate (tutte quelle che gli istintivi veloci giudicano assolutamente prive di senso e inutilmente dispendiose) servano comunque a inquadrare meglio il problema (sì, proprio come la cornice conferisce un carattere al dipinto). Non mi direte che non capita mai di trovare soluzioni nel contorno, invece che al cuore del problema…

Tutto questo ha ovviamente una conseguenza: se si persegue la volontà di perfezionamento in ogni cosa, anche nelle faccende di tutti i giorni, si rischia moltissimo di non smettere più di perfezionare. Si rischia di non capire più quale sia il giusto compromesso, per smettere al momento giusto. Banalmente.

Diceva Buzzati in una intervista del 1966, a proposito del suo Il deserto dei Tartari:

quando stavo scrivendolo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della morte.

Il deserto è in effetti la storia che più mi colpì, al tempo, ma non solo per questo.

Mi colpì per il suo ambientamento surreale, al limite del romanzo di fantascienza; per la scelta dei nomi (nessuno mi leva dalla testa che il cognome di Giovanni Drogo, il protagonista, venga dalla radice slava che sta per "strada"); per l'atemporalità assoluta, per il suo calare nella storia reale, di questo mondo, una storia del tutto appartenente ad un altro mondo, una specie di mondo parallelo dove le stesse persone (proprio loro, se ne potrebbe sentire l'odore) vivono altre esperienze, ignare di questo mondo.

Conosco persone che reputano Il deserto un romanzo vuoto, senza trama, senza ideologie. Io invece (in qualche modo rifacendomi anche alla dichiarazione di Buzzati riportata sopra) direi che è uno di quei romanzi che varrebbe la pena leggere anche solo per fare proprio il senso dell'ultima pagina, o meglio dell'ultima frase, che da sola vale tutto il romanzo.

Si trovò seduto su di una larga poltrona, in una camera da letto; ed era una sera stupenda che lasciava entrare dalla finestra l'aria profumata. Drogo guardava atono il cielo che si faceva sempre più azzurro, le ombre violette del vallone, le creste ancora immerse nel sole. La Fortezza era lontana, non si scorgevano più nemmeno le sue montagne.

Doveva essere quella una sera di felicità per gli uomini anche di media fortuna. Giovanni pensò alla città nel crepuscolo, le dolci ansie della nuova stagione, giovani coppie nei viali lungo il fiume, dalle finestre già accese accordi di pianoforte, il fischio di un treno da lontano. Immaginò i fuochi del bivacco nemico in mezzo alla pianura del nord, le lanterne della Fortezza che oscillavano al vento, la notte insonne e meravigliosa prima della battaglia. Tutti in un modo o nell'altro avevano qualche motivo, anche piccolo, per sperare, tutti fuori che lui.

Di sotto, nella sala comune, un uomo, poi due insieme, si erano messi a cantare, una specie di canzone popolare di amore. Nel sommo del cielo, là dove l'azzurro si faceva profondo, brillarono tre o quattro stelle. Drogo era solo nella camera, l'attendente era sceso a bere un bicchiere, negli angoli e sotto i mobili si accumulavano ombre sospette. Giovanni per un istante sembrò non resistere (nessuno in fin dei conti lo vedeva, nessuno lo avrebbe saputo al mondo), il maggiore Drogo per un istante sentì che il duro carico dell'animo suo stava per rompere in pianto.

Proprio allora dai fondi recessi uscì limpido e tremendo un nuovo pensiero: la morte. Gli parve che la fuga del tempo si fosse fermata, come per rotto incanto. Il vortice si era fatto negli ultimi tempi sempre più intenso, poi improvvisamente più nulla, il mondo ristagnava in una orizzontale apatia e gli orologi correvano inutilmente. La strada di Drogo era finita; eccolo ora sulla solitaria riva di un mare grigio e uniforme, e attorno né una casa né un albero né un uomo, tutto così da immemorabile tempo.

Dagli estremi confini egli sentiva avanzare su di sé un'ombra progressiva e concentrica, era forse questione di ore, forse di settimane o di mesi; ma anche i mesi e le settimane sono ben povera cosa quando ci separano dalla morte. La vita dunque si era risolta in una specie di scherzo, per un'orgogliosa scommessa tutto era stato perduto.

Fuori il cielo era diventato di un azzurro intenso, all'occidente tuttavia restava una striscia di luce, sopra i violetti profili delle montagne. E nella camera era entrato il buio, si distinguevano unicamente le sagome minacciose dei mobili, il biancore del letto, la lucida sciabola di Drogo. Di là - capiva - egli non si sarebbe più mosso. Avvolto così dalle tenebre, mentre di sotto continuavano le dolci canzoni fra gli arpeggi di una chitarra, Giovanni Drogo sentì allora nascere in sé una estrema speranza. Lui solo al mondo e malato, respinto dalla Fortezza come peso importuno, lui che era rimasto indietro a tutti, lui timido e debole, osava immaginare che tutto non fosse finito; perché forse era davvero giunta la sua grande occasione, la definitiva battaglia che poteva pagare l'intera vita.

Avanzava infatti contro Giovanni Drogo l'ultimo nemico. Non uomini simili a lui, tormentati come lui da desideri e dolori, di carne da poter ferire, con facce da poter guardare, ma un essere onnipotente e maligno; non c'era da combattere sulla sommità delle mura, fra rombi e grida esaltanti, sotto un azzurro cielo di primavera, non amici al fianco la cui vista rianimi il cuore, non l'acre odore di polvere e fucilate, né promesse di gloria. Tutto succederà nella stanza di una locanda ignota, al lume di una candela, nella più nuda solitudine. Non si combatte per tornare coronati di fiori, in un mattino di sole, fra i sorrisi di giovani donne. Non c'è nessuno che guardi, nessuno che gli dirà bravo.

Oh, è una ben più dura battaglia di quella che lui un tempo sperava. Anche vecchi uomini di guerra preferirebbero non provare. Perché può essere bello morire all'aria libera, nel furore della mischia, col proprio corpo ancora giovane e sano, fra trionfali echi di tromba; più triste è certo morire di ferita, dopo lunghe pene, in un camerone d'ospedale; più melanconico ancora finire nel letto domestico, in mezzo ad affettuosi lamenti, luci fioche e bottiglie di medicine. Ma nulla è più difficile che morire in un paese estraneo ed ignoto, sul generico letto di una locanda, vecchi e imbruttiti, senza lasciare nessuno al mondo.

"Coraggio, Drogo, questa è l'ultima carta, va' incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene. Vendicati finalmente della sorte, nessuno canterà le tue lodi, nessuno ti chiamerà eroe o alcunché di simile, ma proprio per questo vale la pena. Varca con piede fermo il limite dell'ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare."

Questo, Giovanni diceva a se stesso - una specie di preghiera - sentendo stringersi attorno a sé il cerchio conclusivo della vita. E dall'amaro pozzo delle cose passate, dai desideri rotti, dalle cattiverie patite, veniva su una forza che mai lui avrebbe osato sperare. Con inesprimibile gioia Giovanni Drogo si accorse, d'improvviso, di essere assolutamente tranquillo, ansioso quasi di ricominciare la prova. Ah, non si poteva pretendere tutto dalla vita? Così dunque, Simeoni? Adesso Drogo ti farà un po' vedere.

Coraggio, Drogo. E lui provò a fare forza, a tenere duro, a scherzare con il pensiero tremendo. Ci mise tutto l'animo suo, in uno slancio disperato, come se partisse all'assalto da solo contro un'armata. E subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono, la morte perse l'agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l'immenso portale nero e si accorse che i battenti cedevano, aprendo il passo alla luce.

Povera cosa gli risultò allora quell'affannarsi sugli spalti della Fortezza, quel perlustrare la desolata pianura del nord, le sue pene per la carriera, quegli anni lunghi di attesa. Non c'era neanche più bisogno di invidiare Angustina. Sì, Angustina era morto in cima a una montagna nel cuore della tempesta, se n'era andato da par suo, davvero con molta eleganza. Ma assai più ambizioso era finire da prode nelle condizioni di Drogo, mangiato dal male, esiliato fra ignota gente.

Solo gli dispiaceva di doversene andare di là con quel suo misero corpo, le ossa sporgenti, la pelle biancastra e flaccida. Angustina era morto intatto - pensava Giovanni - la sua immagine, nonostante gli anni, si era mantenuta quella di un giovane alto e delicato, dal volto nobile e gradito alle donne: questo il suo privilegio. Ma chissà che, passata la nera soglia, anche lui Drogo non sarebbe potuto tornare come una volta, non bello (perché bello non era mai stato) ma fresco di giovinezza. Che gioia, si diceva Drogo al pensiero, come un bambino, poiché si sentiva stranamente libero e felice.

Ma poi gli venne in mente: e se fosse tutto un inganno? Se il suo coraggio non fosse che una ubriacatura? Se dipendesse solo dal meraviglioso tramonto, dall'aria profumata, dalla pausa dei dolori fisici, dalle canzoni al piano di sotto? E fra pochi minuti, fra un'ora, egli dovesse tornare il Drogo di prima, debole e sconfitto?

No, non pensarci, Drogo, adesso basta tormentarsi, il più oramai è stato fatto. Anche se ti assaliranno i dolori, anche se non ci saranno più le musiche a consolarti e invece di questa bellissima notte verranno nebbie fetide, il conto tornerà lo stesso. Il più è stato fatto, non ti possono più defraudare.

La camera si è riempita di buio, solo con grande fatica si può distinguere il biancore del letto, e tutto il resto è nero. Fra poco dovrebbe levarsi la luna. Farà in tempo, Drogo, a vederla o dovrà andarsene prima? La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero. Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d'aria di queste inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo. Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po' il busto, si assesta con una mano il colletto dell'uniforme, dà ancora uno sguardo fuori della finestra, una brevissima occhiata, per l'ultima sua porzione di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.

giovedì 9 giugno 2022

Babbo Moreno

La sua storia è finita oggi. È durata 30.844 giorni.

Più di trentamila giorni di esperienza, svaniti nel nulla, come sempre; ma sento come un assurdo conforto nel fatto che adesso la sua storia è davvero completa, tutta davanti ai nostri occhi, perfetta, chiusa, inviolabile.

Come sempre più spesso mi succede, credo adesso di aver pensato di lui cose essenzialmente lontane dalla realtà dei fatti.

Mi sono reso conto solo in questo ultimo mese che la sua semplicità (sì: semplicità) era tutt'altro che una macchia. Se rimetto in ordine gli eventi, il suo modo di gestire le cose, la sua sensibilità, il rispetto che riusciva a ottenere dalla gente nonostante certi aspetti istantanei del suo carattere brontolone e quella che credo fosse la sua visione del mondo, devo ammettere che la sua semplicità fosse in effetti la sua forza. Una forza invidiabile, per me, adesso.

Tra le poche testimonianze dai pochi parenti e amici di famiglia, qualcuna di queste mi ha sorpreso. Qualcuno lo ha ricordato con un affetto che mi ha lasciato senza fiato.

Ma perché io l'ho sempre visto da dentro la famiglia, e non ho mai colto il suo lato più perfetto, quello che mostrava fuori, agli altri, quando dispensava a chiunque ne avesse bisogno lavoretti, favori, consigli, benevolenza. Era uno che sapeva fare certe cose, e la gente lo cercava anche per quello.

Aveva una sua vena comica, e soprattutto amava i bambini. Non avevo mai capito questo suo stare bene coi bimbi, intrattenerli con gusto, farli divertire, inventare storie, finché non è arrivato l'ultimo dei Tognelli, Leto, che è stato con lui solo 1.300 giorni esatti, per la sua più grande soddisfazione.

Lui raccontava storie, sì.

Chi lo ha conosciuto si è divertito fino allo sfinimento nell'ascoltare le mille storie di Palermo, dove a cavallo tra gli anni '50 e i '60 trascorse 18 mesi come militare di leva, e un sacco di altre storie popolari, tutte debitamente storpiate in qualche modo, poesie fatte di pure parole, come anche giochi di parole puri, parole semplici (il suo bambinare), canzoni (con diverse parole inventate, anche giocosamente), e mille concetti sbagliati che lui tramandava ignaro, e il mondo si chiedeva se non fosse il caso di correggere le proprie leggi per far diventare giusti quei concetti.

Raccontava storie, si raccontava storie e presto o tardi le faceva diventare una sua realtà, incastonandole mirabilmente nel mondo reale.

Era nato in una casa in mezzo al bosco sopra Piteccio che lo aveva ospitato solo per sei mesi, e non l'aveva mai più rivista. Una volta io sono andato a cercarla, quella casa, e ne ho potuto fotografare solo le rovine. Ma lui non sono mai riuscito a riportarlo là.

Poi aveva vissuto gli anni più belli della sua vita in piena seconda guerra mondiale nel prato tondo di Mercatale, a Cecafumo. Mille storie in quel prato, raccontate fedelmente mille volte come un cantastorie che canta, però, se stesso. Non conosco nessuno della mia generazione che abbia dato modo di credere di aver vissuto una infanzia così intensa in un certo posto, con certe persone.

Undici anni fa quel prato me lo fece vedere, ed era già, ovviamente, abbastanza diverso da come lui lo ricordava.

Eccolo qui, Moreno, al centro, tra il fratellino Silvano e il fratello maggiore Mauro, fotografati in quel prato verso il 1943.


E ancora: sua moglie, mia mamma; la sua famiglia, che nel bene e nel male è stata una famiglia che non si può non dire fortunata.

Sua moglie la cui assenza lui, forse, non ha tollerato dentro di sé oltre quei circa diciotto mesi in cui le è sopravvissuto. Che strano: li ha portati via la stessa malattia, praticamente nello stesso modo.

Qui riprendo il mio pensiero iniziale. Non saprò mai cosa fosse effettivamente mamma Bruna, per lui. Sono sicuro che fosse un pilastro, sì, ma non potrò mai più coglierne sfaccettature. Nei dodici mesi di malattia di mamma lui non ha mai chiesto cosa avesse, come non ha mai chiesto cosa avesse lui stesso durante la sua. Ecco un lato della sua semplicità, che esce fuori sfacciatamente, in un modo assurdo che fino a ieri ho ritenuto scandaloso, e solo oggi saluto come un inno al candore, alla lucida disperazione che rappresenta il modo meno peggiore di sopportare il mondo, alla saggezza di chi non spreca nessuna risorsa invano perché sa che il mondo è meglio affrontarlo così.

〰〰〰

Babbo, ti ringrazio tanto per tutto quello che hai fatto per me, e hai fatto davvero tanto. Se ci penso bene, se guardo fino in fondo, tu non mi hai mai ostacolato in niente; hai sempre favorito la realizzazione di quello che ti ho chiesto, senza condizioni, fidandoti di me, al limite della decenza, a volte. E così te ne sei andato, senza chiedere niente, davvero, senza disturbare nessuno. Lasciandomi senza fiato.

Tra un attimo il mondo ti avrà già dimenticato, e avrà già dimenticato me, tutti noi, questi anni, e poi l'umanità tutta e il suo tempo. Ma noi abbiamo vissuto il nostro tempo e abbiamo imparato qualcosa; abbiamo giocato, abbiamo lavorato, abbiamo camminato insieme. Dunque è valsa davvero la pena di vivere tutto questo.



sabato 21 maggio 2022

Cose storte (continuazione di "La mia coscienza")

Tutto il mondo sta tra 0 e 1 sul segmento di retta reale individuato da quegli estremi, dicevamo ieri.
Ma adesso penso a uno scarabocchio.
Se il segmento e la retta reale sono quanto di più esatto, coerente, efficiente e asettico si possa pensare, cosa pensare dello scarabocchio?
Guardo da vicino.
Ok, è curvo, informe, ritorna su se stesso senza regolarità, forma anelli e intrecci senza regola; ma se lo guardo davvero da vicino mi sento sempre più autorizzato a pensare che in fondo, anche lui, abbia la stessa stoffa del mio segmento originale. Solo che... Curva.
Ma il suo curvarsi è un pregio?
Vediamo.

Lo scarabocchio potrebbe essere il germe della scrittura.
Allora ci sono due livelli: macroscopicamente, esso comincerebbe a rappresentare qualcosa di comprensibile, istantaneamente, a chiunque. Il segno. E al contempo, nella sua intimità conserverebbe tutte quelle meravigliose proprietà che abbiamo attribuito al segmento, con qualche aggiunta: il fatto di poter curvare e impegnare così dimensioni diverse da quella unitaria.
Quest'ultima capacità gli conferisce insieme sporcizia, disordine, ma anche maggiore dignità.
La curvatura introduce piani di astrazione ancora superiori (ma in quel punto, quanto curva? E curva formando concavità o convessità?): le tangenti, il concetto di derivata, il concetto di angolo.
Già! Gli angoli!
Le curvature estreme, repentine, singolari, sono angoli.
Lì la tangente non esiste, e lo scarabocchio si ribella in quel punto ad ogni legge o regola ortodossa.
Lo scarabocchio più eclettico è poi quello che non solo curva, non solo forma angoli, ma ha il coraggio di... spezzarsi.
Pensa: pensa prima al tuo segmento ordinato, preciso, obbediente, ligio al suo dovere, che a un certo punto concepisse di volersi riprodurre per scissione, sganciando il legame tra due punti contigui per formare due copie di se stesso, identiche, in tutto e per tutto, potendo mettere in corrispondenza biunivoca tutti i suoi punti originali sia col primo che col secondo segmento figlio. In scala.
Così lo scarabocchio: gli basterebbe sganciare due punti contigui, magari quelli in prossimità di un angolo, per scindersi in due parti, questa volta non esattamente uguali, però, in generale, a causa della curvatura.
Ma, aspetta: non dicevamo che tra un punto e un altro ce ne sono infiniti?
Allora, che vuol dire "sganciare il legame tra due punti contigui"?
No, non funziona. Non ci sono punti contigui. Per quanto ti possa sembrare irreale, non ci sono punti contigui su un segmento, o su uno scarabocchio, perché tra ogni coppia di punti che individuerai, per quanto vicini, troverai sempre infiniti altri punti.
E allora, quando produci il tuo "taglio", che succede? Cosa rimane a destra e a sinistra? Una infinità di punti liberi che si avvicinano indefinitamente al punto di taglio, senza toccarlo mai. Questa sì che è bella.
Qui le cose si fanno toste.
A volte capita che produci il taglio su un punto "noto", nominabile, individuabile, per esempio 1/2; quel punto rimarrà o a destra o a sinistra, a "suturare" la ferita, mentre dall'altra parte avrai la sequenza di infiniti punti senza più un capo che rimarranno anonimi e penzolanti. O, peggio, quanto taglierai a caso, in un punto "non nominabile", da entrambe le parti avrai una infinità di punti a reclamare una sutura, che non potrai concedere.
Queste sono le regole, nella geometria di segmenti e scarabocchi, impietose, precise, freddamente logiche.

Ma c'è altra bellezza, negli scarabocchi.
Pensa: ogni scarabocchio, qualunque forma abbia, per quanto bizzarro sia (senza tagli, però!), ha un suo codice univoco, una sua impronta digitale, un suo DNA. Puoi trovare (se ci studi un po') una formula che lo descrive al completo, o se vuoi una funzione. O anche (meglio!) una trasformata di Fourier.
Queste ultime non sono altro che sequenze di numeri che, messi nel tritacarne giusto e dato il colpo di manovella, producono lo scarabocchio del caso; che, a quel punto, non è più anonimo ma viene intrappolato, schedato e messo in catalogo.
Se ti sembra strano, non proverò a romperti la testa qui con altri discorsi; piuttosto, ti rimanderò qui per farti toccare con mano e vedere con i tuoi occhi.

E la mia coscienza che c'entra con tutto questo?
C'entra, c'entra.
Ora che concepisco bizzarrie di infinità non più solo in riga bensì affette perfino da curvature, anelli intrecciati, angoli, spezzature senza capo né coda e mille altri nodi possibili, credo di essere ancora di più a casa mia, e non trovo più strano il mondo, e mi scandalizzo sempre meno di quanto mi succede dentro e fuori.

venerdì 20 maggio 2022

Amore, morte e stupidità

C'è una legge per me empirica ma ampiamente sperimentata nel corso della mia esistenza.

Noi (tutti noi, probabilmente anche animali e piante) proviamo affetto e empatia, quando li proviamo, con intensità crescente al diminuire della distanza tra noi e l'essere o oggetto amato.

Credo si potrebbero fare numerosi esempi; ma il primo approccio sarà senz'altro la constatazione che proviamo orrore per chi muore nelle nostre vicinanze mentre rimaniamo praticamente impassibili constatando che nel resto del mondo ogni secondo accadono morti atroci per i più atroci motivi.

Per quanto posso capire deve trattarsi di una caratteristica imposta dall'evoluzione; forse una difesa di qualche natura, del tipo: daremmo fuori di testa se mai dovessimo farci carico di tutte le atrocità del mondo, oltre quelle che ci accadono sotto gli occhi.

E ora un esempio contrario: com'è possibile perdere la testa innamorandosi di una persona che è entrata nella nostra sfera di contatti, ignorando del tutto le miriadi di persone tutto intorno, tra le quali, statisticamente, sarà di gran lunga più probabile trovare un partner più bello / colto / intelligente / interessante / attraente?

Per quanto posso capire deve trattarsi anche qui di una difesa, ma questa volta del mondo: per non perdere tempo (la natura vuole andare al sodo, vuole continuare la specie facendoti accoppiare non importa molto con chi) ti lega quanto basta al primo essere che ti capita a tiro e al quale tu capiti a tiro (spesso bisogna essere in due a piacersi) e amen.

Per il resto, più un essere ti sarà lontano (non solo spazialmente, ma anche culturalmente, etc.) più tenderai a ignorarlo se non a disprezzarlo. Ditemi che non è così, nella media.

Ed ecco il punto. Ok, questi atteggiamenti sono probabilmente dettati da fatti che hanno a che fare con l'evoluzionismo; ma la stupidità della cosa in sé come la gestiamo?

Per il primo esempio, dov'è la logica nel non provare orrore considerando tutta la malvagità del mondo riversata su soggetti che non sono prossimi a te? Eppure, sai benissimo come funziona l'orrore di cui parliamo. Come fai, ragionevolmente, a tenerti al riparo dal considerare tutto quel dolore? Come fai a tenere spenta la logica che ti obbligherebbe a quella constatazione?

Per il secondo esempio, dov'è la logica nel provare affetto solo per chi ti è vicino e per chi conosci (già)? Che il tuo intento sia di convenienza, di calcolo o di amore/affetto disinteressato, come può la distanza discriminare il soggetto della tua attenzione? Non parlo solo del mondo di oggi, dove le distanze vanno scemando, ma farei il discorso anche per un villaggio dei tempi che furono, dove comunque una possibilità di contatto più ampia doveva pur esserci.

Perché prestiamo fiducia e credibilità solo a chi si trova entro la nostra sfera di azione, e pensiamo che il resto del mondo non ne sia degno? Perché ci sembra che sia più ingannevole un essere che non abbiamo ancora conosciuto, mentre l'esperienza ci urla addosso ogni giorno che perfino gli amici, spessissimo, lavorano contro il nostro interesse?

Sì: io trovo illogico tutto questo.

Sono certamente soggetto alle stesse leggi evoluzionistiche del resto del mondo, e a tutta prima mi comporto esattamente come gli altri; ma non posso fare a meno di chiedermi ogni giorno come sia possibile che la stupidità prevalga praticamente sempre sulla convenienza comune.


La mia coscienza

Tutto il mondo sta tra 0 e 1.

Il segmento di retta reale i cui estremi siano 0 e 1 contiene davvero ogni possibilità, per quanto sia grande l'universo o il numero di multiversi possibili, compreso quelli della tua immaginazione, della mia e di tutto il resto.

Nota che si chiama retta reale: evidentemente qualcuno l'ha sentita più reale di qualunque altro oggetto matematico relazionabile a numeri "inferiori" (naturali, relativi, razionali), e deve ben averci trovato corrispondenze proficue con la realtà, visto che subito dopo ha chiamato immaginari i numeri dell'insieme subito più complesso.

Sì, lo so: sono solo etichette. Ma ogni nome ha un suo perché, e questo mi sembra perfino azzeccatissimo.

Ora, prova a immaginare: cammini su quel segmento, sei abbastanza piccolo da poter osservare la sua trama da vicino, e hai una vista ineccepibile. Ti trovi, diciamo, verso la tacca del 1/3; e ti cominci a spostare verso lo 0.

Ti aspetti di trovarvi una singolarità, quantomeno: lì il segmento finisce, non c'è nulla oltre lo 0, nel verso negativo. Ti avvicini, curioso. Passi l'1/2, passi l'1/4, poi, più avanti l'1/10, e procedi ancora, spedito.

Arrivi in vista del tuo traguardo. I tuoi passi si fanno più lenti, per guardare meglio. Via via che avanzi verso lo 0, è come se la strada si dilatasse sotto i tuoi piedi: più passi fai, più la strada fa emergere nuovi dettagli sconosciuti, sempre più piccoli, sempre più densi alla tua vista.

Allora provi ad accelerare: lo 0 è ancora lì, davanti a te, ma la strada si dilata sempre di più, si sdipana pur rimanendo della stessa lunghezza: passi 1/100, passi 1/1000, passi 1/100.000, e via via sempre più vicino, ma ti rimangono pur sempre infiniti passi per toccare lo 0.

Ti rendi conto che tra te e lo 0 ci sono effettivamente infiniti passi.

Ti torna in mente il concetto di epsilon, di intorno: qualunque punto tu scelga a fare da "confine" del tuo intorno dello 0, qualunque sia in altre parole il tuo punto di partenza, tra quel punto e lo 0 ci saranno sempre infiniti punti. E tra ognuno di quegli infiniti punti e lo 0, di nuovo infiniti. E così via.

Non basta.

Se il tuo segmento fosse stato fatto di numeri razionali (le frazioni, ok?), ti saresti accorto che tra un numero e l'altro ci sarebbero state delle fessure. I numeri razionali non sono continui. π è reale, non si può rappresentare con una frazione: se ti fossi sporto a curiosare nel suo intorno, poco più su del tre (che sta su un altro segmento, ok), avresti notato che sulla retta razionale al suo posto ci sarebbe stato un buco. Piccolissimo, ma un buco.

Il tuo segmento reale è invece denso. Non ci sono buchi. Lo sai cosa significa? Che tra ogni coppia di punti arbitrari c'è sempre almeno un altro punto. Quindi ce ne sono infiniti.

E come fai a chiamare reale una cosa così? Come fai, dai?

Il mondo è forse liscio, denso e senza buchi?

Il mondo no, di sicuro, ma le sue possibili configurazioni (che sono il prodotto del caso) quelle sì.

Adesso lo avverto chiaro. Mi sporgo a curiosare nell'intorno del mio zero e trovo, compatte, uno sterminio di possibilità tra le quali la mia realtà, una sola, misera, infima; la guardo, questa realtà, e capisco immediatamente che la probabilità che si realizzasse (mettendoci dentro i miliardi di anni che hanno gli atomi che mi formano) era inconcepibilmente minima. Prossima allo zero, appunto, e vicinissima ad esso. Più vicina di quanto io possa mai realizzare.

La metafora può continuare quanto si vuole: posso voltarmi dall'altra parte, correre verso l'1, scorrazzare su e giù, avanti e indietro, esaminando con la mia lente dell'intelletto ogni punto del segmento, speculandoci sopra, cercando associazioni, cercando di metterlo al suo posto nel mio schema mentale; per poi accorgermi che l'1 non è che lo speculare dello 0, già ridotto ormai a qualcosa di più comprensibile dopo le mie scorribande.

[Un attimo: ma se 0 e 1 sono speculari, allora l'estremo che cercavo è forse il centro? No, no: perché anche 1/2 ha il suo intorno che, diviso in due parti che guardano verso 0 e verso 1 riproduce esattamente due volte il mio segmento iniziale, fatto degli stessi infiniti punti, avente le stesse infinite proprietà e gli stessi comportamenti, tutti in relazione biunivoca, punto per punto, uno per uno; e questo è il bello degli insiemi infiniti, dove lo spreco non è dato.]

Distanze infinite tra ogni coppia di punti, anche se essi "sono in vista". Baratri di possibilità tra ogni evento e il successivo, e nessuna fessura nella quale poter cadere.

Questa è prigione e azzurro di cieli aperti, dannazione e liberazione, una trappola fatta di pura libertà.

Ed io non sono dentro e non sono fuori, e sono dappertutto, finché esisterà la mia coscienza.



sabato 14 maggio 2022

La teoria dei giochi di Wisława

No, non c'è nulla oltre quella soglia. Inutile cercare pretesti.

E questo apre scenari interessanti.

Ora: la cosa più interessante è senza dubbio il tempo che devi sprecare per capirlo.

Per convincertene.

Per ammettere che non può che essere così.

Per riconoscere che non ci avevi capito niente, per acquietare il senso immane di spreco, per sentirti normale.

Quando, sveglio, ci arrivi, capisci, realizzi, fai tuo questo nuovo modo di vivere il mondo, allora ti viene addosso una valanga di conseguenze; che sommergendoti, schiacciandoti, ti libera da tutti i tuoi problemi.

Tutti, ho detto. Tutti.

Se sei sveglio, se realizzi bene: tutti.


Mi dicono che sembriamo essere programmati per coltivare credenze, e di conseguenza per essere stupidi quanto basta per sopravvivere – o almeno provarci.

Mi verrebbe da prendermela con il mondo, ma il mondo è esattamente il mio pensiero.

Dunque mi conviene riderne. Con leggerezza – a che vale prendersela, in questo contesto?

Oh! Ho detto "conviene"!

Solo poco tempo fa avrei subito fatto appello a una morale, per dubitare della convenienza di quel concetto (strano giro di parole!).

Oggi no. Non c'è niente di sconveniente nel perseguire ciò che conviene; non è vergognoso, non è amorale (eccone un'altra!).

Troppe volte la vita mi dimostra che le cose fatte bene sono quelle che ti portano ad estremità.

Ami un gesto (ossessivamente, magari, e non è un problema) se lo pratichi fino alla sua estremità.

Ti senti al sicuro solo se hai fatto di tutto per capire, sperimentare, imparare quella cosa, senza poter fare niente di più.

Non amo le persone che non praticano le estremità.

Posso fidarmi di chi spreme il dentifricio dalla metà del tubetto, ma amo veramente chi lo spreme scrupolosamente dal fondo. Pedissequamente. (Stupendo!)

La sola scusa per tollerare la stupidità del mondo è la sua complessità. Ma il fatto che si possa essere in grado di concepire questo mi dà già un sollievo enorme. Mi ritengo fortunato.

Mille parole, ma non qui.

Allora andiamo avanti, sapendo bene che i giorni sono contati, i passi limitati, e la complessità ci sovrasta.

Ogni scenario è aperto: siamo liberi – anche se non lo siamo: è possibile ogni pensiero, gesto, astrazione, col solo limite delle nostre forze fisiche e mentali; e non rompete i coglioni, per favore, con altri discorsi: ogni astrazione, gesto, pensiero è possibile e aperto a chi voglia e possa praticarlo; e qualunque giudizio da parte di chiunque non ha alcun senso.

Io sono tutti, e non sono nessuno.

giovedì 9 dicembre 2021

Semplificare il mondo

Qualche minuto fa parlavo con una persona al telefono.

Si parlava di sensi di colpa.

E il mio cervello cercava vorticosamente un modo per rendere chiaro con meno parole possibili la mia idea fondamentale: il mondo è troppo complesso per rendere significativa l'attribuzione di un peso a cose come i sensi di colpa. Talmente complesso che alla fine, guardando da sufficientemente lontano, la sua complessità diventa di una semplicità estrema. Ecco, ecco: guardando dalla distanza giusta, il mondo è semplicemente complesso, in modo letterale.

E così le ho detto. Devi solo semplificare il mondo, è tutto lì.

Se ci riesci, se riesci a ammettere che alla fine la complessità del mondo svanisce con tutti i suoi rivoli in un sistema semplice – la cui semplicità comprenda tutta la sua complessità, allora vivi davvero.

Le ho detto proprio così: se semplifichi il mondo, allora vivi davvero.

Non lo so. Ma mi è sembrato un modo bellissimo per dire le cose come stanno.

Grazie.

Grazie a chi, con un mirabile colpo di arte maieutica, mi ha tirato fuori questa idea. Il mio augurio di semplificare il suo mondo!

domenica 25 luglio 2021

Il virus del cambiamento

Due minuti fa mi sono trovato a scrivere sul Diario di Leto:

Le cose che vanno come non te lo aspetti o come non vorresti, non aspettarti che tornino come te le aspettavi o come le volevi. Il tempo ha la sua inerzia, ma raramente le cose riprendono la piega desiderata; bisogna saper accettare il cambiamento, farsene una ragione, trovare anzi il modo di girare in buono quello che lì per lì ti sembra cattivo. Come un virus, il cambiamento entra dentro e si attacca alle tue cose, e per quanto esse sembrino tornare a quello stato che tu consideravi “normale”, il virus del cambiamento gli rimane dentro, più o meno manifesto, più o meno “dannoso”, più o meno capace di mutare la loro “natura” (virgolette perché sempre meno mi riesce pensare che la natura sia naturale).

Anche l’evoluzione fa così. Non c’è un fine, né tantomeno un fine giusto o sbagliato; c’è solo una strada da percorrere, che si crea da sola, viaggiandoci.

Sono sempre cattivi i virus? Guardando tutto dal punto più alto, non direi. Non dal loro punto di vista, sicuramente; ma a guardare bene, accettando il nonsenso dell’aspettativa di un fine, può darsi che non siano in assoluto cattivi neanche dal nostro.

E mi piace riportarlo qui.

venerdì 18 giugno 2021

Lasciati andare

Oggi ho la certezza di stare su una soglia, e di esserci sempre stato, senza saperlo – fino a tempi recenti: la soglia perenne del dubbio e dell'incertezza. Quella soglia che ti separa a volte di poco e a volte insopportabilmente da un mondo inesistente fatto di sicurezze.

Paradossalmente, l'unica certezza che ho è che il mondo è incerto, e incerta ogni cosa che lo riguarda, su ogni piano. La scienza, primariamente – la cosa più solida che abbiamo, al momento – non pretende certezze, nemmeno lei (tutt'al più offre ipotesi, le migliori del momento, anche se taluna potrebbe sembrare una verità assoluta); e nel resto del mondo i confini tra cose e idee sono sempre assegnabili quanto meno in modo arbitrario. Quanto meno: io sono diverso da te, senza alcun dubbio, e i miei confini non sono i tuoi che per poche, misere idee concomitanti.

Se hai certezze, allora non mi piaci; non mi piace il tuo essere, e mi dolgo per l'occasione che stai perdendo: di considerare il mondo per quello che è, di non illuderti di avere delle verità, di non innalzarti a cosa non puoi essere. Non ti dirò che sono contento perché tu, magari, vivi bene nella tua illusione; non te lo dirò perché sono triste per la tua occasione perduta.

Per quanto mi riguarda, invece, mi trovo bene sulla mia soglia; mi trovo bene, nonostante la controintuitività della cosa, a dover fare i conti tutti i giorni con qualcosa che mi cambia, dentro o fuori; fossi invece certo di certezze insopportabili, arriverebbe sicuramente il momento in cui il dubbio mi ammazzerebbe. Come probabilmente è successo, qualche tempo fa.


martedì 8 giugno 2021

Daniele

Daniele non c’è più.

Daniele non funziona più.

Daniele è morto.

Daniele ha vissuto 26.952 giorni.

Daniele era l’Amico.

Qui non potrò far capire al lettore che poche, pochissime cose che lo riguardavano – ma forse la concisione dirà più delle parole.

Storia di una amicizia; storia di una Persona.

L’elenco delle cose che mi ha insegnato o che comunque ho mutuato da lui è lungo e vario.

Un giorno capii che fuori dalla mia casa paterna c’era un mondo intero da scoprire, e la voglia esplosiva di farlo me la diede lui; e fu lui il primo a farmi vedere parti del mondo che senza di lui avrei visto solo molto più tardi o forse non avrei mai visto.

6.632 giorni ci separavano; dunque la sua esperienza era già immensamente più ampia della mia; ma i suoi gusti, il suo senso della bellezza, la sua voglia di ricercare e di capire erano meravigliosi, al di là di tutto. Questi, ho mutuato per primi – o quanto meno ho mutuato da lui la possibilità di coltivare gusti, senso della bellezza, voglia di ricercare.

C’è una foto di quel tempo, che mi ha fatto lui, e che dice tanto:

Voi cosa ci vedete?

Per me, questo era il suo occhio.


Ora penso necessariamente a Noi, a Homo Sapiens.

Le considerazioni sulla nostra esistenza (così dettata dal caso e priva di senso, nella mia visione) sono state forse l’unico elemento di disaccordo tra i nostri atteggiamenti; ma non ne sono più del tutto sicuro.

Sicuramente Daniele aveva il senso di una certa spiritualità, mentre io ne sono del tutto privo; e ne sono privo perché la mia esperienza e la mia ragione mi ha portato a esserlo, mentre lui ammetteva e anzi – spesso – poggiava su considerazioni che chiamo qui forse impropriamente spirituali.

Sicuramente ammetteva l'esistenza di un regno di cose che vanno oltre ogni possibile spiegazione umana – ma intendo scientifica, senza spiegare qui tutte le implicazioni della parola. Io oggi non lo ammetto più; ma non è stato certo questo che ci ha allontanati, negli ultimi anni.

È la mia vita e le mie necessità e desideri che mi hanno allontanato da lui, e me ne dolgo – ma non ho saputo e voluto fare diversamente.

Lui è stato in ogni caso sempre qui, dentro di me, come riferimento al di sopra di tutto, perché prima fonte di ogni cosa che conta, per me.

Lui viveva in uno stato di coscienza sublime e dannato, allo stesso tempo; sublime perché sublime, e dannato perché troppo elevato. Lui si rendeva conto in modo insopportabile dell'assurdità di tanta parte del mondo – come e molto più di me, 6.632 volte più di me – e questo gli dava la rabbia per soffrirne e la forza per andare avanti. Credo abbia gustato la vita in modo invidiabile, e credo l'abbia sopportata in modo mirabile.


Gli voglio tutto il bene possibile.

Sarà un altro lutto al quale mi abituerò con grandissima fatica.






sabato 1 maggio 2021

I battiti del cuore

Non disdegno gli attimi di nulla: quei momenti nei quali stai lì, magari seduto, senza fare niente, cercando di non pensare a niente, nel tentativo di riposare/scaricare la tensione/ricaricarti.

Forse coincidono con quello che altri chiamano meditazione; non saprei, invero.

A tratti sembrano qualcosa di negativo, perché, magari, oggi come oggi (e qui come qui) trovarsi senza fare nulla (anzi: a perseguirlo) può davvero sembrare qualcosa che somiglia a una fuga, o quantomeno strano. Può sembrare sintomo di depressione.

Ed è comunque davvero difficile estraniarsi quanto basta per non fare, pensare, smuovere, sperare nulla.

Invece, a volte, è il nulla che si impone, e ti viene difficile inventare qualsiasi cosa per riempirlo.

Prima ho pensato: a volte, in quei momenti, il contatto col mondo è così rotto che l'unica attività cosciente che ti rimane (o che ti si impone) è ridursi a contare i battiti del proprio cuore.

E subito dopo: ridursi? Mah. Perché non elevarsi?

Sì, io credo che non ci siano differenze, alla fine.


(Ah, non c'entra quasi niente, ma: questo.)

martedì 30 marzo 2021

Evoluzione

Io sono nessuno, ma mi sono fatto un'idea.

Cercare di capire, realizzare cosa siamo e perché ci siamo e siamo così (sostanzialmente: un caso piuttosto improbabile, tutto sommato) mi aiuta parecchio a sopportare il mondo, la gente, le idee altrui (quasi sempre in contrasto con le mie, naturalmente).

Spiego meglio: ascoltare Telmo Pievani, Guido Barbujani, Giorgio Manzi e molti altri che per loro bontà si prodigano di divulgare ciò che ragionevolmente riteniamo essere più vicino possibile a come sono andate le vicende che  hanno portato l'umanità qui e ora, così com'è, mi dà un sollievo diffuso; perché capisco che non esiste nessun presupposto, nessun disegno; nessuna speranza, nessun fine; solo il caso, solo la possibilità; e, semmai, è esistito un rischio immane di non esserci, di estinguersi già molto tempo addietro. E invece eccoci qui, a pensare, agire, esercitare stupidità: perché l'evoluzione mostra anche – incidentalmente – la nostra propensione alla credulità e alla stupidità, forse perché l'esistenza è qualcosa di troppo complesso per poter essere organizzata da un semplice cervello umano. E non rendersi conto di questo provoca sofferenza.

Ciononostante, non riesco pienamente a mantenere la mia serenità, tanto il mio cervello è condizionato, o scarso di risorse, forse; o inadatto a gestire l'esistenza come il mio scheletro è inadatto a gestire la postura eretta rispetto a quella più naturale a quattro zampe.

Ma va bene così, dai; se capisci che siamo qui per caso e che avremmo potuto non esserci, o essere davvero diversi, va bene così. Va bene farselo andare bene, direi.

E poco di più.

mercoledì 23 dicembre 2020

Il secondo movimento della Settima

Tecnicamente - ma senz'altro lo sapete - è una marcia funebre; ma Beethoven ha scritto allegretto in testa allo spartito, come indicazione della dinamica. Chissà come l'avrà pensata, lui, l'autore.
Ne esistono interpretazioni molto veloci e altre lente o molto lente; la mia preferita è lentissima. L'ho trovata sulla rete molto tempo fa e non ho mai appurato chi ne fosse l'interprete (il direttore). Sicuramente, le interpretazioni di Solti o di von Karajan sono eccessivamente veloci, per i miei gusti, almeno. Solo una interpretazione lenta, lentissima, ti permette di penetrare il tessuto del discorso che vi si svolge.
È dentro alla settima sinfonia, ma è tutto sommato un pezzo a sė. È totalmente autonomo.
Adesso dico delle cose, le dico io, anche se non sono nessuno.
Racconta il viaggio di un uomo.
Lo racconta soffermandosi sulla condizione normale dell'uomo saggio e sul dolore.
Nello svolgersi di questo racconto, che non ha mai toni eroici o troppo sottomessi, l'uomo nella sua condizione normale non alza mai la testa, consapevole della propria condizione; è solo nella tragedia del suo dolore che la alza, ma composto, senza urlare, senza chiedere, solo cercando di resistere, proprio in quanto uomo.
Normalità e dolore si alternano e si fondono, a volte divenendo qualcosa di surreale o grottesco, imprevedibile, alieno; esattamente quello che certo dolore provoca negli uomini, a volte. Sì smarrisce la coscienza di noi stessi, si parte per un viaggio che, se ci riporterà a casa, ci riporterà comunque cambiati.
Anche il finale è notevole: a un certo punto sembra volgere al termine ma, no, ce n'è ancora; e poi finisce in modo sì decoroso, ma tutt'altro che solenne. Come dovrebbe essere, secondo me. Come è, anzi, in genere.


domenica 19 aprile 2020

I no-vax, le scie chimiche e tutte quelle cose lì

Se c'è una cosa che mi fa stare male è la perdita di un'occasione. È l'unica cosa che, se fatta intenzionalmente e/o con ragione, ritengo letteralmente un peccato.

Ora, lasciamo da parte per un momento i casi particolari, come appunto i no-vax e tutti quegli altri che praticano idee, atteggiamenti e teorie che normalmente definiamo pseudo-scientifiche, e saliamo un paio di scalini per concentrarci sull'atteggiamento generale di chi voglia sostenere una qualunque idea, atteggiamento, teoria.

Il problema è: come posso pormi nei confronti di una qualche qualità o aspetto della realtà che non conosco, e di cui sto cercando di capire qualcosa?
A me pare ormai naturale (tanto naturale che stento a credere di aver vissuto parte della mia vita senza averlo riconosciuto, o senza dare per scontato che questa debba essere una dote innata) che l'unico atteggiamento serio debba essere quello della ricerca che procede per dimostrazioni, o quanto meno le approssima il più possibile laddove una dimostrazione vada oltre le possibilità offerte dall'argomento dell'investigazione.
Investigazione, appunto.
Quale detective mai concluderebbe qualcosa senza prove, senza dimostrazioni le più rigorose possibili?
Chi mai dovrebbe credere a qualcosa solo perché te lo dico io?
Ciò detto, l'attenzione va immediatamente al fatto che la realtà (la natura) spessissimo non offre la possibilità di condurre dimostrazioni rigorose in assoluto. Provare per credere. La realtà è fatta così: anche senza tirare in ballo i problemi relativi all'interpretazione, alla soggettività, alla difficoltà di comunicare concetti e via dicendo, rimane sempre un sottofondo di ineffabilità (ops, volevo dire inconoscibilità) insito nella natura stessa, una specie di principio di indeterminazione esteso a tutto ciò che esiste. Ma fermiamoci qua, con questo discorso, che altrimenti diventa filosofico e autoreferenziale.
Dunque, a essere onesti, da queste poche considerazioni scaturisce un atteggiamento che impone di andare cauti, di usare la massima circospezione, di usare il più possibile quello strumento meraviglioso che chiamiamo scetticismo. Tutto questo lo chiamiamo metodo scientifico, o, con locuzione più significativa, metodo sperimentale.
E da quelle considerazioni scaturisce anche un altro fatto, il più importante: che chi si pone davanti alla natura e alla realtà con questo atteggiamento è colui che possiede ragionevolmente meno certezze di tutti.
È in effetti l'atteggiamento più onesto.
Dall'altra parte ci sono le credenze e la pseudoscienza: cose che nascono dall'assumere per vera una certa teoria senza condurre indagini, ma in modo fine a sé stesso. Te lo dico io…

È tipico dell'atteggiamento scientifico non dare alcunché per scontato, e niente per definitivo.
Esistono mille esempi di come teorie ritenute ormai universalmente valide siano state modificate, estese, completate da altre teorie successive. L'esempio più noto è forse la gravità galileiana, ampliata e meglio descritta successivamente dalla gravità newtoniana, confluita poi e clamorosamente allargata dalla relatività einsteniana.
Perfino il sistema copernicano può essere considerato a tutti gli effetti una estensione e una sistematizzazione del sistema tolemaico.
Chi voglia saperne di più può attingere a piene mani nel fantastico canale YouTube CURIUSS, dell'amico Alan Zamboni.

E infine una sorta di corollario: chi fa scienza spesso indaga in campi che spesso sembrano insignificanti o lontani da qualunque utilità pratica, magari scoprendo cose utili senza volere o semplicemente osservando fenomeni per il puro piacere di conoscerli; è come se, così facendo, si mettessero da parte "pezzi di mondo" che poi potrebbero essere riutilizzati in seguito, e praticamente sempre succede che quei pezzi di mondo vengano riutilizzati. L'esempio che mi piace di più viene dalla matematica ed è il concetto di numero immaginario: roba ipotizzata nel XVI secolo e data per assolutamente fantasiosa e di nessuna utilità pratica, mentre oggi è alla base di molte teorie e di molte discipline, come l'elettrotecnica.

Un giorno del '99 i signori David Dunning e Justin Kruger, psicologi, quasi per scherzo provarono a compiere un'indagine che è passata alla storia come effetto Dunning-Kruger. In due parole, e semplificando all'estremo, cercarono di capire se effettivamente sia intuitivo quanto detto fin qui. E non lo è, non lo è, cavolo. Dati alla mano, non lo è. La comunità scientifica all'inizio li derise, perfino (altra auto-referenza!), ma oggi l'effetto Dunning-Kruger è una delle descrizioni migliori che abbiamo di come la gente percepisce il mondo. 

Tutto questo l'hanno detto in migliaia prima e molto meglio di me, naturalmente; ma uno fra gli ultimi mirabili esempi è questo, se volete approfondire.

Ora dovrebbe essere comprensibile perché ritengo l'atteggiamento di molti un'occasione sprecata.

sabato 25 gennaio 2020

La coscienza e il dolore

Mitiga il dolore, la conoscenza.
Credo che se si riesce a espandere la sfera del nostro sapere e di conseguenza la nostra coscienza, ci sia più spazio per contenere il dolore, per diluirlo.
Ho pensato che tutto dovrebbe essere inquadrato per quel che è, guardando il tutto dall'alto, dall'altissimo, dal fuori, da lontanissimo. Il mio dolore visto dall'amico vicino, da uno sconosciuto, da un'altra forma di vita, da fuori del sistema solare, e così via, cosa diventa? Perché questo è quel che è, la realtà. E io, nel 2020, ho una coscienza abbastanza marcata di cosa sia l'amico, lo sconosciuto, un'altra forma di vita, il cosmo. Mi ci posso immedesimare facilmente. Dunque posso espandere la mia coscienza diluendola fino a quegli orizzonti; e posso comprendervi anche il dolore.
Naturalmente questa è la mia sensibilità, a tratti perfetta, a tratti disperata, a tratti ironica. La sensibilità degli altri sarà diversa, e la mia coscienza lo prevede.
Non c'è un senso per tutto questo, e ne sono contento.

domenica 29 dicembre 2019

Dolore

Ho cinquantaquattro anni.
Mia mamma ne ha ottantadue; la mattina del 27 dicembre 2019, improvvisamente, le hanno diagnosticato una leucemia mieloide acuta. La dottoressa mi ha preso da parte, nel corridoio, mentre la mamma cercava di riposarsi sul suo lettino, e con parole non casuali mi ha messo al corrente della cosa, con brevissimo crescendo. La cosa mi è entrata dentro col fracasso che ci si può immaginare. Di lì a poco ho dovuto contenere e dissimulare uno svenimento. Non sono riuscito a rimanere forte come avrei dovuto.
Da lì, più volte mi sono trovato a considerare le possibilità che adesso abbiamo davanti. Più volte le ho tenuto la testa mentre i colpi di tosse la devastavano, l'ho fatta orinare, l'ho accudita come ho potuto, con l'impaccio, la determinazione, l'imbarazzo, lo schifo, l'amore, la pena, l'imperizia di chi lo fa la prima volta.
Più volte ho pianto verso il nulla, senza imprecare, senza chiedere niente, senza recriminare, senza sperare alcunché; solo per la pena di un dolore vuoto e senza senso se non quello della Vita.
Oggi mi sono detto che molte credenze devono nascere o da dolori vuoti, come questo, o al contrario da felicità incontenibili, per il senso del ringraziamento. In entrambi i casi probabilmente di tratta dello stesso problema: noi uomini siamo probabilmente solo troppo coscienti di noi e dell'esistenza, e forse in modo distorto.
Spero sia un problema legato all'evoluzione; spero che l'evoluzione perfezioni anche questo aspetto, ed elimini il dolore per quanto possibile; questa sì che sarebbe eleganza.

martedì 23 aprile 2019

Porcellana

C'è sulla rete, su YouTube, un canale di divulgazione scientifica eccezionale: si chiama CURIUSS.
In uno dei tanti video lì contenuti si cita questa massima, che mi ha colpito in modo particolare:

Trasporre le teorie e il loro formalismo d'origine – la matematica – fino al paese delle parole è un trasloco tanto delicato quanto essenziale. Delicato, perché i concetti della fisica sono ancora più fragili della porcellana; essenziale, perché questa operazione è una sfida di ordine etico, dal momento che il nostro modo di dire le cose determina il nostro modo di pensarle: se le diciamo male, le penseremo male.

mercoledì 17 aprile 2019

Coerenza

Mi danno fastidio le persone incoerenti.
L'incoerenza delle persone rivela o stupidità o calcolo; entrambe sono detestabili.
Anche il cambio di umore improvviso rientra nell'incoerenza, per me, a meno che non sia dimostrato uno stato patologico.

sabato 6 aprile 2019

"L'ultima domanda", per Pierpaolo...

Pierpaolo, Asimov scrisse questo brevissimo racconto nel 1956. Un colpo di luce, per me.
Voglio sapere se leggendo le ultime dieci righe ti scoprirai una lacrimuccia sulla guancia...


L'ULTIMA DOMANDA
L'ultima domanda venne posta per la prima volta, quasi per scherzo, il 21 maggio 2061, in un momento in cui l'umanità cominciava a intravedere finalmente un po' di luce. La domanda era il risultato di una scommessa di cinque dollari, nata durante una bevuta, ed ecco come andò la cosa.
Alexander Adell e Bertram Lupov erano due dei fedeli assistenti addetti a Multivac. Sapevano - così come era dato saperlo a due esseri umani - che cosa c'era dietro la fredda, lampeggiante, ticchettante faccia - chilometri e chilometri di faccia - del gigantesco calcolatore. Avevano se non altro una nozione vaga del piano generale di relay e di circuiti che da tempo aveva superato il limite oltre il quale una singola mente umana non poteva assolutamente conservare una chiara visione d'insieme.
Multivac si auto-regolava e si auto-correggeva. Doveva essere così, perché nessun essere umano poteva regolarlo o correggerlo con sufficiente rapidità o in modo adeguato. Così, Adell e Lupov badavano al mostruoso gigante solo in modo leggero e superficiale, e al tempo stesso come meglio non era possibile, trattandosi di uomini. Vi inserivano dati, adattavano le domande alle necessità del calcolatore e traducevano le risposte che questo forniva. Senza dubbio, tanto loro due che gli altri loro colleghi avevano pieno diritto di bearsi della gloria che spettava a Multivac.
Per decenni, Multivac aveva dato una mano, per così dire, a progettare le navi e a calcolare le traiettorie che mettevano in grado gli uomini di arrivare sulla Luna, su Marte e su Venere ma, al di là di quelli, le scarse risorse della Terra non consentivano alle navi di affrontare il viaggio. Troppa energia era richiesta per i lunghi percorsi. La Terra sfruttava le sue riserve di carbone e di uranio con efficienza crescente, ma in sé quelle riserve erano limitate.
Lentamente, tuttavia, Multivac aveva imparato quanto bastava per rispondere in modo più fondamentale a domande più profonde e, il 14 maggio 2061, quella che era stata una teoria, era diventata un fatto concreto.
L'energia del sole veniva ora immagazzinata, trasformata e utilizzata direttamente, su scala planetaria. La Terra intera poteva spegnere i suoi fuochi alimentati a carbone e le sue centrali nucleari, per far scattare l'interruttore che connetteva il tutto a una piccola stazione, di un chilometro e mezzo di diametro, in orbita attorno alla Terra a una distanza che era la metà di quella della Luna. Tutto, sulla Terra, funzionava ora grazie agli invisibili raggi dell'energia solare.
Sette giorni non erano bastati a offuscare la gloria di quell'avvenimento, ma Adell e Lupov riuscirono finalmente a sottrarsi alle celebrazioni pubbliche per rifugiarsi in santa pace dove nessuno avrebbe pensato di cercarli, ossia nelle deserte sale sotterranee dove s'intravedevano alcune parti del possente corpo sepolto di Multivac.
Si erano portati una bottiglia, e la loro unica preoccupazione, al momento, era di rilassarsi l'uno in compagnia dell'altro e con l'aiuto di un abbondante beveraggio.
«È incredibile, se ci pensi bene» disse Adell. La larga faccia era segnata dalla stanchezza, ed egli agitava lentamente la bibita con una cannuccia di vetro, osservando i cubetti di ghiaccio nei loro stentati spostamenti. «Tutta l'energia che potremmo mai desiderare di usare, completamente gratuita. Energia a sufficienza, qualora decidessimo di farne spreco, per fondere tutta la Terra in un unico gocciolone di ferro liquido e impuro, senza minimamente dar fondo, per questo, alla riserva totale. Tutta l'energia che potremo mai usare, insomma, per sempre, per sempre e ancora per sempre.»
Lupov piegò la testa da un lato. Era un vezzo, che aveva, quando si metteva in mente di fare il Bastian contrario; e ne aveva una gran voglia, in quel momento, forse perché era toccato a lui procurare il ghiaccio e i bicchieri. «Per sempre poi no» disse.
«Andiamo Bert, praticamente per sempre, sì. Fino a che il sole non sarà scarico, per lo meno.»
«Be', non per sempre, allora.»
«Ma sì, come vuoi tu. Per miliardi e miliardi di anni. Venti miliardi, facciamo. Soddisfatto, sì?»
Lupov si passò le dita tra i capelli sempre più radi, come per assicurarsi che gliene rimanesse ancora qualcuno, e sorseggiò pian pianino la sua bibita. «Venti miliardi di anni non è per sempre.»
«Be', durerà almeno finché ci siamo noi, no?»
«Se è per questo, sarebbero durati anche il carbone e l'uranio.»
«D'accordo, ma ora possiamo allacciare ogni singola nave alla Stazione Solare, e farla andare e tornare da Plutone un milione di volte senza doverci più preoccupare del combustibile. Prova a farlo con il carbone e l'uranio, se sei capace! Del resto, se non mi credi, domandalo a Multivac.» «Non ho bisogno di domandarlo a Multivac. Lo so.» «Allora piantala di minimizzare quello che Multivac ha fatto per noi» disse Adell, accalorandosi. «È stato bravissimo!»
«Chi dice di no? Io dico solo che un sole non dura in eterno. Basta, non ho detto altro! Per venti miliardi di anni siamo tranquilli; e poi?» Lupov puntò contro l'altro l'indice che tremava leggermente. «E non venire a dirmi che potremo attaccarci a un altro sole.»
Per un po', rimasero in silenzio. Solo di tanto in tanto Adell si portava il bicchiere alle labbra, e Lupov un po' alla volta aveva chiuso gli occhi. Riposavano, tutti e due.
Poi, Lupov riaprì gli occhi di scatto. «Stai pensando che, quando il nostro sarà esaurito, ci attaccheremo a un altro sole, vero?»
«Non sto pensando affatto.»
«Sì, invece. Tu manchi di senso logico, ecco qual è il tuo difetto. Sei come quel tale della storiella, che essendo stato sorpreso da un acquazzone era corso fino a un boschetto e si era rifugiato sotto un albero. Era tranquillo, lui, perché pensava che, una volta che si fosse bagnato ben bene quell'albero lì, non doveva fare altro che spostarsi sotto un altro.»
«Ho capito, sì» disse Adell. «È inutile che gridi. Una volta spento il nostro sole, anche le altre stelle si saranno esaurite, nel frattempo»
«Puoi star sicuro che si saranno esaurite» borbottò Lupov. «Tutto ha avuto origine in una prima esplosione cosmica, qualsiasi cosa fosse, e tutto avrà una fine quando le stelle si saranno scaricate ben bene. Alcune si spegneranno più in fretta di altre. Le stelle giganti dureranno al massimo cento milioni di anni. Il sole durerà venti miliardi di anni, mettiamo, e le nane potranno durare cento miliardi di anni, per quel che servono. Ma lascia che passi un trilione d'anni, e tutto sarà sprofondato nel buio. L'entropia deve per forza raggiungere un massimo, tutto qui.»
«So tutto dell'entropia» disse Adell, con un tono di dignità offesa.
«Davvero? Non si direbbe.» «Ne so tanto quanto te.» «Allora sai anche che tutto finirà per decadere, prima o poi.»
«D'accordo. Chi ha detto il contrario?»
«Tu, l'hai detto, povero mammalucco. Hai detto che avevamo tutta l'energia di cui abbiamo bisogno, per sempre. Hai detto proprio "per sempre".»
Era Adell, ora, in vena di contraddire. «Può anche darsi che, un giorno o l'altro, si riesca a ricostituire tutto.» «Mai!»
«Perché no? Un giorno, non so quando.»
«Domandalo a Multivac.»
«Questo poi no.»
«Domandalo a Multivac, ti dico! Facciamo una scommessa: mi gioco cinque dollari che ti dirà di no anche lui.» Adell era abbastanza brillo per provare, abbastanza in sé per poter comporre i simboli e le operazioni necessarie per una domanda che, in parole, sarebbe suonata press'a poco così: Potrà un giorno il genere umano, senza dispendio di energia, essere in grado di riportare il sole alla sua piena giovinezza perfino dopo che sarà morto di vecchiaia?
O magari, in maniera più semplice, si sarebbe potuta formulare così: Com'è possibile diminuire in modo massiccio il quantitativo di entropia dell'universo?
Multivac si fece immobile e muto. I lenti lampi di luce cessarono, i lontani rumori del ticchettio dei relay si fermarono.
Poi, proprio quando i due tecnici terrorizzati sentivano di non farcela più a trattenere il respiro, vi fu un improvviso ritorno alla vita della telescrivente collegata con quella parte di Multivac. Le parole erano cinque in tutto: DATI INSUFFICIENTI PER RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
«Niente scommessa» bisbigliò Lupov. E insieme si allontanarono in fretta dal sotterraneo.
Il mattino dopo i due amici, afflitti dal mal di testa e dalla bocca impastata, avevano già dimenticato l'incidente.

Jerrodd, Jerrodine e Jerrodette I e II osservavano sul quadro visivo i cambiamenti dello stellato mentre il passaggio attraverso l'iperspazio veniva completato in un lasso di nontempo. Tutto a un tratto, il pulviscolo di stelle cedette il posto alla predominanza di una singola e vivida biglia, proprio al centro del quadro.
«Quello è X-23,» disse Jerrodd, senza un attimo di esitazione. Intrecciò con forza le mani scarne dietro di sé, tanto che le nocche gli si sbiancarono.
Le piccole Jerrodette, due sorelline, avevano fatto per la prima volta in vita loro l'esperienza del passaggio nell'iperspazio ed erano un po' imbarazzate a causa della momentanea sensazione di uscire da se stesse. Soffocavano le risate dietro le manine e si rincorrevano a vicenda attorno alla mamma, facendo un baccano indiavolato. «Siamo arrivati su X-23» gridavano, «siamo arrivati su X-23... siamo...» «Buone, bambine» le zittì Jerrodine, in tono severo. «Sei sicuro, Jerrodd?»
«Come si fa a non esserne sicuri?» ribatté Jerrodd, levando lo sguardo all'uniforme sporgenza metallica proprio al di sotto del soffitto. La sporgenza correva lungo tutta la cabina scomparendo poi attraverso le paratie alle due estremità. Era lunga come l'intera astronave.
align=justifyJerrodd non sapeva quasi niente a proposito di quel grosso tubo metallico, salvo che veniva chiamato Microvac; che, volendo, era possibile rivolgergli delle domande; che, oltre a rispondere a eventuali domande, aveva il compito di guidare la nave fino a preordinata destinazione. Inoltre, Microvac provvedeva a rifornirsi di energia dalle varie Stazioni Erogatrici Sub-Galattiche e, infine, risolveva le equazioni per i balzi iperspaziali.
Jerrodd e la sua famiglia non dovevano fare altro che aspettare, comodamente alloggiati nelle cabine dell'astronave.
Qualcuno, una volta, aveva detto a Jerrodd che «ac», alla fine di Microvac, in inglese antico stava per «calcolatore analogico», ma lui era ormai in procinto di dimenticare perfino questo.
Jerrodine aveva gli occhi lucidi, nel fissare il quadro visivo. «Non so cosa farci. Mi sento molto scossa al pensiero d'avere lasciato la Terra.»
«Ma perché, benedetta donna?» si meravigliò Jerrodd. «Non avevamo niente, laggiù, mentre su X-23 avremo praticamente tutto. Non ti sentirai sola, perché non sarai una pioniera: sul pianeta c'è già un milione e più di persone. Santo cielo, se pensi che i nostri pronipoti dovranno cercarsi nuovi mondi, perché X-23 sarà già sovraffollato!» Poi, dopo una pausa di riflessione: «Credi a me, è una vera fortuna che i calcolatori abbiano risolto il problema dei viaggi interstellari, considerato il modo come si moltiplica la razza.»
«Lo so, lo so» convenne Jerrodine, avvilita.
«Il nostro Microvac» saltò su Jerrodette 1, «è il Microvac migliore del mondo.»
«Certo, lo penso anch'io» disse Jerrodd, arruffandole i riccioli.
In effetti era bello poter avere un Microvac tutto per sé, e Jerrodd era contento di appartenere alla sua generazione. Al tempo in cui era giovane suo padre, gli unici calcolatori esistenti erano dei tremendi macchinoni che occupavano centinaia di chilometri quadrati di terra. Ce n'era non più di uno per pianeta. AC Planetari, si chiamavano. Per migliaia d'anni, non avevano fatto che aumentare di dimensioni finché, tutt'a un tratto, era subentrato il raffinamento tecnico. Al posto dei transistori, erano venute le valvole molecolari, per cui perfino il più grande degli AC Planetari poteva trovar posto in uno spazio pari alla metà del volume di una astronave.
Jerrodd provava un senso di esaltazione, cosa che sempre gli accadeva quando si ricordava che il suo Microvac personale era di gran lunga più complicato dell'antico e primitivo Multivac che per primo aveva domato il Sole, nonché quasi altrettanto complesso dell'AC Planetario Terrestre (il più grande di tutti) che per primo aveva risolto il problema del viaggio interstellare e reso possibile spostarsi da una stella all'altra.
«Tante stelle, altrettanti pianeti» sospirò Jerrodine, immersa nelle proprie meditazioni. «Le famiglie non faranno che trasferirsi su nuovi pianeti, per sempre, proprio come stiamo per fare noi ora.»
«Per sempre no» corresse Jerrodd, con un sorriso. «Un giorno o l'altro, tutto si fermerà, ma prima che accada dovranno passare miliardi di anni. Molti miliardi. Perfino le stelle si esauriscono, come ben sai. L'entropia deve per forza aumentare.»
«Che cos'è l'entropia, papà?» strillò Jerrodette II.
«L'entropia, cara, è una... un termine, ecco. Significa il quantitativo di decadimento dell'universo. Tutto si... - si scarica, diciamo così. Come il tuo piccolo robot walkie-talkie, ricordi?»
«E non si può inserire una nuova unità-di-energia, come facevamo per il mio robot?»
«Le stelle sono le unità di energia, mia cara. Una volta esaurite quelle, non ne rimangono più.»
All'istante, Jerrodette I scoppiò in un pianto disperato. «No, - no, papà, non voglio! Non lasciare che le stelle si scarichino, papà!»
«Hai visto cos'hai fatto, ora?» bisbigliò Jerrodine, esasperata.
«Come potevo immaginare che si sarebbero spaventate?» bisbigliò Jerrodd di rimando.
«Domandalo al Microvac» singhiozzò Jerrodette I. «Domandagli come si fa per riaccendere le stelle.»
«Coraggio, domandaglielo» disse Jerrodine. «Chissà che non serva a calmarle.» (Anche Jerrodette II aveva cominciato a piagnucolare.)
Jerrodd si rassegnò. «Buone, su, bambine. Ora sentiamo da Microvac, eh? Vedrete che ce lo dirà, state tranquille.» Rivolse la domanda al Microvac, affrettandosi ad aggiungere: «Rispondi per iscritto».
Qualche istante dopo, faceva sparire nel palmo la sottile striscia di cellufilm e diceva allegramente: «Ecco qua, Microvac dice di non preoccuparsi, che quando verrà il momento penserà lui a tutto.»
«E adesso a letto, bambine» intervenne Jerrodine. «Tra poco saremo nella nostra nuova casa.»
Prima di distruggere la strisciolina di cellufilm, Jerrodd lesse ancora una volta le parole: DATI INSUFFICIENTI PER RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
Con un'alzata di spalle, riportò l'attenzione sul quadro visivo. X-23 era vicinissimo, ormai.

VJ-23X di Lameth fissò le nere profondità della mappa tridimensionale su scala ridotta della Galassia e domandò: «Che dici, siamo ridicoli a preoccuparci tanto della questione?»
MQ-17J di Nicron scosse la testa. «Non direi. Si sa che, al presente tasso di espansione, nel giro di cinque anni la Galassia si popolerà completamente.»
Sembravano entrambi sul principio della ventina, erano tutti e due alti e perfettamente formati.
«D'altra parte» osservò VJ-23X, «non so se sia il caso di presentare un rapporto pessimistico al Consiglio Galattico.»
«Io non esiterei, invece. È il solo rapporto possibile, secondo me. Li scuoterà un po', si spera. Bisogna scuoterli, caro mio.»
VJ-23X sospirò. «Lo spazio è infinito. Cento miliardi di Galassie sono là che aspettano d'essere popolate. Ma che dico, di più!»
«Cento miliardi non sono affatto l'infinito, e per di più lo sono sempre di meno, a mano a mano che il tempo passa. Ma rifletti! Ventimila anni fa, l'umanità risolse il problema di come utilizzare l'energia stellare e, pochi secoli più tardi, il viaggio interstellare divenne una cosa possibile. Ebbene, l'umanità che aveva impiegato un milione di anni a saturare un unico, piccolo mondo, da quel momento ne ha impiegati soltanto quindicimila per riempire il resto della Galassia. Ora, ogni dieci anni la popolazione raddoppia...» «Possiamo ringraziare l'immortalità per questo» lo interruppe VJ-23X.
«Siamo d'accordo. Ma l'immortalità esiste, e non ci resta che tenerne conto. Intendiamoci, il suo lato negativo ce l'ha, non lo metto in dubbio. L'AC Galattico avrà risolto molti problemi, non discuto, ma nel risolvere quello per prevenire la vecchiaia e la morte, ha mandato a Patrasso tutte le altre sue soluzioni.»
«E d'altra parte, sii sincero: saresti disposto ad abbandonare la vita?»
«Neanche per idea» scattò MQ-17J, subito moderandosi e aggiungendo: «Non ancora. Sono ancora giovane, alla fin fine. Tu quanti anni hai?»
«Duecentoventitré. E tu?»
«Sono ancora sotto i duecento, io... Ma, per tornare al discorso di prima, la popolazione, dicevo, raddoppia ogni dieci anni. Una volta saturata questa Galassia, nel giro di dieci anni ne avremo popolata un'altra. Altri dieci anni, e ne avremo riempite altre due. Altro decennio, e ne avremo saturate altre quattro. Tempo un centinaio d'anni, e di Galassie ne avremo riempite un migliaio. In mille anni, un milione di Galassie. In diecimila anni, l'intero Universo conosciuto. E poi?»
«Senza contare» osservò VJ-23X, «che esiste un problema tutt'altro che secondario, ossia quello del trasporto. Mi domando quante unità di energia solare ci vorranno per trasferire Galassie di individui da una Galassia all'altra.»
«Osservazione quanto mai pertinente! Già oggi, l'umanità consuma qualcosa come due unità di energia solare all'anno.»
«Di cui la maggior parte va sprecata. In fin dei conti, la nostra Galassia da sola riversa un migliaio di unità d'energia solare all'anno, di cui noi ne usiamo soltanto due.» «D'accordo, ma anche con un'efficienza del cento per cento, non faremmo che rinviare la fine. Le nostre richieste di energia aumentano, in proporzione geometrica, anche più rapidamente della nostra popolazione. Esauriremo l'energia solare prim'ancora d'avere esaurito le Galassie. Hai fatto un'osservazione giusta. Sì, giustissima.»
«Ci toccherà costruire nuove stelle, ricavandole dal gas interstellare.»
«O dal calore dissipato?» domandò con sarcasmo MQ17J.
«Chissà che non esista un modo di invertire l'entropia?
Dovremmo proprio domandarlo all'AC Galattico.»
VJ-23X non diceva sul serio, ma MQ-17J estrasse di tasca il suo Contatto-AC e lo posò sul tavolo, davanti a sé.
«Ho una mezza voglia di farlo» disse. «È, un argomento che la razza umana dovrà pure affrontare, un giorno o l'altro.»
Fissava cupamente il suo piccolo Contatto-AC. In sé, l'apparecchio era un piccolo cubo insignificante, ma era collegato, attraverso l'iperspazio, con il grande AC Galattico che serviva tutto il genere umano. Tenuto conto dell'iperspazio, l'apparecchietto era parte integrale dell'AC Galattico.
MQ-17J si soffermò a domandarsi se, nel corso della sua vita immortale, sarebbe riuscito e vedere da vicino l'AC Galattico. L'AC stava su un piccolo pianeta tutto suo, ragnatela di linee di forza che abbracciava la materia entro la quale ondate di sub-mesoni prendevano il posto delle rozze valvole molecolari di un tempo. Tuttavia, nonostante i suoi dispositivo sub-eterici, era risaputo che l'AC Galattico si estendeva per ben trecento metri.
«Sarà mai possibile invertire l'entropia?» domandò inaspettatamente MQ-17J al suo Contatto-AC.
VJ-23X trasalì e si affrettò a precisare: «Ma, dì un po'. non pensavo certo che glielo domandassi davvero, sai?» «Perché no?»
«Perché sappiamo benissimo che non è possibile invertire l'entropia. Non si può ritrasformare fumo e cenere in un albero.»
«Avete alberi sul vostro pianeta?» domandò MQ-17J.
Il suono dell'AC Galattico li zittì all'improvviso, facendoli trasalire. La voce del possente calcolatore usciva bella e un po' fievole dal piccolo Contatto-AC posato sulla scrivania. DATI INSUFFICIENTI PER RISPOSTA SIGNIFICATIVA, disse.
«Hai sentito?» mormorò VJ-23X.
Dopo di che, i due uomini ritornarono alla questione del rapporto da presentare al Consiglio Galattico.

La mente di Zee Prime misurò a spanne la nuova Galassia, mostrando soltanto un vago interesse per le innumerevoli stelle che la incipriavano. Sicuramente non l'aveva mai vista, quella. Sarebbe mai riuscito a vederle tutte? Numerose com'erano, ciascuna con il suo carico di umanità... Ma un carico che era più che altro un peso morto. Sempre di più, la vera essenza dell'uomo andava ricercata là fuori, nello spazio.
Menti, non corpi! I corpi immortali rimanevano laggiù sui pianeti, come sospesi al di sopra del tempo. Talvolta si ridestavano a un'attività materiale, ma il fenomeno si faceva sempre più raro. Pochi individui nuovi vedevano la luce e andavano ad aumentare le imponenti masse di moltitudini, ma che importanza aveva? Non c'era più spazio nell'Universo, ormai, per nuovi individui.
Zee Prime si scosse dalle sue meditazioni nell'imbattersi nelle volute lievi di un'altra mente.
«Sono Zee Prime» disse Zee Prime. «E tu?» «Mi chiamo Dee Sub Wun. La tua Galassia?» «La chiamiamo soltanto Galassia. E tu?» «Anche noi la chiamiamo soltanto così. Tutti chiamano così la loro Galassia. Che male c'è?»
«Ah, figurati! Tra l'altro, sono tutte uguali.»
«Proprio tutte, no. Su una particolare Galassia, la razza umana deve avere avuto origine, e questo la rende diversa.» «Su quale?» domandò Zee Prime.
«Non saprei. Ma l'AC Universale dovrebbe saperlo.»
«Vogliamo domandarglielo? Ora m'hai messo in curiosità.»
Le percezioni di Zee Prime si dilatarono fino a che le Galassie stesse si rimpicciolirono e divennero uno spolverìo diverso e più diffuso sopra uno sfondo assai più vasto. A centinaia di miliardi, ve n'erano, tutte con i loro esseri immortali, tutte recanti il loro carico di intelligenze, con menti che fluttuavano liberamente nello spazio. Eppure, una di esse era unica tra tutte, in quanto era la Galassia originale. Una di esse, nel suo vago e distante passato, aveva un periodo in cui era stata l'unica Galassia popolata dall'uomo.
Zee Prime ardeva dalla curiosità di vedere quella Galassia e chiamò: «AC Universale! Su quale Galassia ha avuto origine il genere umano?»
L'AC Universale udì, poiché su ogni mondo e attraverso tutto lo spazio aveva pronti i suoi ricettori, e ogni ricettore, attraverso l'iperspazio, conduceva a qualche punto ignoto dove l'AC Universale si teneva in disparte. Zee Prime sapeva di un solo uomo i cui pensieri erano penetrati entro una distanza dalla quale era ancora possibile captare l'AC Universale, e costui aveva riferito d'avere intravisto a fatica un globo luminoso, del diametro di mezzo metro.
«Ma è mai possibile che l'AC Universale sia tutto lì?» aveva domandato Zee Prime.
«La maggior parte di esso» era stata la risposta, «è nell'iperspazio. Sotto quale forma, proprio non saprei immaginare.»
Né alcuno lo poteva, perché ne era passato di tempo, Zee Prime lo sapeva, dal giorno in cui un uomo aveva avuto una parte sia pure secondaria nella creazione di un AC Universale. Ciascun AC Universale progettava e costruiva il suo successore. Ciascun AC, durante la sua esistenza di un milione di anni e più, accumulava i dati necessari a costruire un successore migliore, più complesso ed efficiente, in cui il suo stesso bagaglio di dati e di individualità sarebbe rimasto sommerso.
L'AC Universale interruppe i pensieri divaganti di Zee Prime, non con parole ma con una sorta di influsso direttivo. Zee Prime venne guidato entro il confuso mare delle Galassie fino a che una in particolare si ingrandì, mostrandosi in tutte le sue stelle.
Un pensiero, infinitamente lontano ma infinitamente chiaro, arrivò a Zee Prime: QUESTA E’ LA GALASSIA ORIGINALE DELL'UOMO.
Ma era identica a tutte le altre, alla fin fine e Zee Prime soffocò il suo disappunto.
Dee Sub Wun, la cui mente aveva accompagnato l'altra, domandò all'improvviso: «E una di queste è la stella originale dell'Uomo?»
LA STELLA ORIGINALE DELL'UOMO E’ DIVENTATA UNA NOVA, rispose l'AC Universale. E’ UNA NANA BIANCA.
«E gli uomini che ci vivevano sono morti?» domandò Zee Prime, senza riflettere.
COME SEMPRE IN QUESTI CASI, disse l'AC Universale, PER I LORO CORPI E’, STATO COSTRUITO IN TEMPO UN MONDO NUOVO.
«Eh, già, è vero» disse Zee Prime, ma ugualmente si sentiva sopraffatto da un senso di vuoto. La sua mente allentò la presa sulla Galassia originale dell'Uomo, lasciò che questa si ritraesse bruscamente fino a perdersi tra l'ammasso confuso di punti luminosi. Si augurava di non rivederla più.
«Che c'è?» domandò Dee Sub Wun. «Qualcosa che non va?»
«Le stelle stanno morendo. La stella originale è morta.» «Che c'è di strano? Tutte devono morire.» «Ma quando tutta l'energia si sarà esaurita, moriranno anche i nostri corpi, e tu e io con loro.»
«Ci vorranno miliardi di anni.»
Ma io non voglio che accada, nemmeno tra miliardi di anni. «AC Universale! Come si può impedire che le stelle muoiano?»
Divertito, Dee Sub Wun osservò: «Stai domandandogli come si potrebbe invertire l'andamento dell'entropia.»
PER ORA MANCANO DATI SUFFICIENTI, rispose l'AC Universale, PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
Zee Prime lasciò che i suoi pensieri riaffluissero verso la sua vera Galassia. Non si curò più di Dee Sub Wun, il cui corpo poteva essere in attesa su una Galassia distante un trilione di anni luce, così come sulla stella accanto a quella di Zee Prime. Non aveva importanza.
Desolato, Zee Prime cominciò a raccogliere idrogeno interstellare con il quale costruirsi una stellina tutta per sé. Se anche le stelle dovevano morire tutte, prima o poi, per ora era ancora possibile costruirne qualcuna.

L'Uomo rifletteva tra sé e sé, perché in un certo senso, mentalmente, l'Uomo era unico. Era formato da trilioni, trilioni e trilioni di corpi senza età, ciascuno al suo posto, ciascuno immobile e incorruttibile, ciascuno accudito da automi perfetti e altrettanto incorruttibili, mentre le menti di tutti quei corpi si fondevano liberamente l'una nell'altra, indistinguibili.
«L'Universo sta morendo» disse l'Uomo.
Guardò, intorno a sé, le Galassie sempre più fioche. Le stelle giganti, così spendaccione, si erano spente da un pezzo, laggiù nel buio del più oscuro passato remoto. Quasi tutte le stelle erano nane bianche, sul punto di spegnersi.
Nuove stelle erano state costruite con la polvere interstellare, alcune per un processo naturale, altre dall'Uomo stesso, e anche quelle stavano per decadere. Era ancora possibile far cozzare tra loro delle nane bianche e, dalle possenti forze così sprigionate, far scaturire nuove stelle; ma una soltanto, ogni mille nane bianche distrutte, e anche quelle poche, presto o tardi, avrebbero finito per decadere.
«Amministrata con estrema oculatezza, secondo i dettami dell'AC Cosmico» disse l'Uomo, «l'energia che ancora rimane nell'Universo durerà miliardi di anni.»
«Ciò nonostante» obiettò l'Uomo, «prima o poi tutto avrà una fine. Per quanto oculatamente amministrata, per quanto sfruttata al massimo, l'energia, una volta spesa, è perduta per sempre, e nessuno può sostituirla. L'entropia non può che aumentare, fino a raggiungere un massimo.» «È possibile invertire l'entropia?» domandò infine l'Uomo. «Sentiamo che cosa ne dice l'AC Cosmico.»
L'AC Cosmico li circondava, ma non nello spazio. Neppure un frammento di AC Cosmico si trovava nello spazio.
Era nell'iperspazio, ed era fatto di qualcosa che non era né materia né energia. Il problema delle sue dimensioni e della sua natura non era più traducibile in termini che l'Uomo potesse comprendere.
«AC Cosmico» invocò l'Uomo, «è possibile invertire l'entropia?»
FINORA, rispose l'AC Cosmico, NON ABBIAMO DATI SUFFICIENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA.
«Raccogline altri» ordinò l'Uomo.
LO FARO’, disse l'AC Cosmico. LO STO FACENDO DA CENTO MILIARDI DI ANNI. I MIEI PREDECESSORI E IO CI SIAMO SENTITI FARE QUESTA DOMANDA MOLTE VOLTE. TUTTI I DATI CHE HO RIMANGONO INSUFFICIENTI.
«Verrà un tempo» domandò l'Uomo, «in cui i dati saranno sufficienti, o questo problema è insolubile in tutte le circostanze possibili e immaginabili?»
NESSUN PROBLEMA E’ INSOLUBILE IN TUTTE LE CIRCOSTANZE POSSIBILI E IMMAGINABILI, rispose l'AC Cosmico.
«Quando avrai dati sufficienti per rispondere alla domanda?» volle sapere l'Uomo.
FINORA I DATI SONO INSUFFICIENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA, rispose l'AC Cosmico.
«Continuerai a occupartene?» domandò l'Uomo.
LO FARO’, promise l'AC Cosmico.
«Aspetteremo» disse l'Uomo.

Le stelle e le Galassie morirono e si spensero, e lo spazio, dopo dieci trilioni d'anni di decadimento, divenne nero.
Un individuo alla volta, l'Uomo si fuse con AC, e ciascun corpo fisico perdeva la sua idoneità mentale in un modo che, a conti fatti, non si traduceva in una perdita ma in un guadagno.
L'ultima mente dell'Uomo esitò, prima della fusione, contemplando uno spazio che comprendeva soltanto i fondi di un'ultima stella quasi spenta e nient'altro che materia incredibilmente rarefatta, agitata a casaccio da rimasugli finali di calore che calava, asintoticamente, verso lo zero assoluto.
«È questa la fine, AC?» domandò l'Uomo. «Non è possibile ritrasformare ancora una volta questo caos nell'Universo? Non si può invertire il processo?,»
MANCANO ANCORA I DATI SUFFICIENTI PER UNA RISPOSTA SIGNIFICATIVA, disse AC.
L'ultima mente dell'Uomo si fuse e soltanto AC esisteva, ormai... nell'iperspazio.

Materia ed energia erano terminate e, con esse, lo spazio e il tempo. Perfino AC esisteva unicamente in nome di quell'ultima domanda alla quale non c'era mai stata risposta dal tempo in cui un assistente semi-ubriaco, dieci trilioni d'anni prima, l'aveva rivolta a un calcolatore che stava ad AC assai meno di quanto l'uomo stesse all'Uomo.
Tutte le altre domande avevano avuto risposta e, finché quell'ultima non fosse stata anch'essa soddisfatta, AC non si sarebbe forse liberato della consapevolezza di sé.
Tutti i dati raccolti erano arrivati alla fine, ormai. Da raccogliere, non rimaneva più niente.
Ma i dati raccolti dovevano ancora essere correlati e accostati secondo tutte le relazioni possibili.
Un intervallo senza tempo venne speso a far questo.
E accadde, così, che AC scoprisse come si poteva invertire l'andamento dell'entropia.
Ma ormai non c'era nessuno cui AC potesse fornire la risposta all'ultima domanda.
Pazienza! La risposta - per dimostrazione - avrebbe provveduto anche a questo.
Per un altro intervallo senza tempo, AC pensò al modo migliore per riuscirci. Con cura, AC organizzò il programma.
La coscienza di AC abbracciò tutto quello che un tempo era stato un Universo e meditò sopra quello che adesso era Caos. Un passo alla volta, così bisognava procedere.

“Che sia la luce!” disse AC.
E la luce fu ...

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