sabato 31 ottobre 2009

Bianca Montagna

Nell’alba fredda e umida, scolorita, la tela del ragno pende leggera, trappola perfetta, aspettando paziente la sua preda.
Tutti gli animali del bosco sono all’erta, con i sensi tesi; più di tutti la volpe, nella sua tana, vegliando sui piccoli e su lei stessa.
Fuori, le orme impresse nella neve ghiacciata raccontano ormai una storia. Anche questa volta l’indifferenza e l’intolleranza hanno fatto il loro lavoro.
Per gli Altri, è di nuovo la solita vecchia storia: qualcuno ha trasgredito, ha peccato, ed ha dovuto pagare; ha dovuto pagare per dar modo agli Altri di omologare di nuovo il peccato, e quindi la santità.
Roog era ormai sfinito; mentre si sentivano da lontano le urla selvagge dei suoi inseguitori, egli aveva ormai olrepassato da un pezzo il limite che nessun lupo del Branco aveva mai attraversato prima; gli altri lo avevano abbandonato; qualcuno di loro si era arreso, qualcun altro aveva provato a combattere, ma senza successo. Nessuno dei suoi vecchi compagni sarebbe mai più stato al suo fianco, di questo era certo.
E fu proprio in quel territorio, da sempre considerato sacro e inviolabile dal Branco, che Roog conobbe la Verità.
Freeg, il vecchio Re, lo aveva ormai quasi raggiunto, alla testa dell’intero Branco che lo inseguiva. Roog aveva corso velocissimo dentro foreste di ghiaccio, si era arrampicato su salite impervie ed era ormai quasi giunto sulla vetta della Bianca Montagna, il Sacro Territorio, per conoscervi la Verità. Freeg, ormai sempre più vicino, ululava per il suo sangue.
Roog sapeva che quello sarebbe stato il suo ultimo viaggio: la cima della Bianca Montagna si sarebbe rivelata l’ultima trappola, dalla quale non sarebbe potuto scappare se non gettandosi dall’alto; ma un Lupo non si arrende davanti a nessun nemico; un Lupo lotta, fino alla fine.
Roog era ormai sulla vetta; la Bianca Montagna si elevava spettrale verso il Cielo, e Roog con lei. Freeg si allontanò dal Branco, con una mossa astuta, e girò intorno alla vetta, velocissimo, con la coda drizzata e gli occhi affilati.
Fu così che Roog conobbe la Verità: Freeg gli si parò davanti, all’improvviso, fiero; il vecchio re che nessuno aveva mai sconfitto non sorprese però Roog, che conosceva molto bene il prezzo che stava per pagare.
Roog alzò gli occhi e guardò per un attimo la Corona che Freeg portava sulla testa; Freeg alzò lo Scettro sopra la testa di Roog, pronto a colpirlo, e recitò:
“Roog, figlio del Grande Roog, il traditore che stavamo cercando; tu sai che la legge secolare della Fratellanza dice questo: che nessun occhio mortale, se non quello del Re, può guardare lo Scettro e la Corona che gli Dei mi hanno donato; tu, usurpatore, adesso devi morire.”
Roog si avventò alla gola del vecchio Re, ma combattè invano. Quell’alba, la Bianca Montagna si macchiò rosso sangue, e ancora una volta l’Ordine fu ristabilito.
Ancora una volta la Corona e lo Scettro erano salvi.
Freeg li nascose di nuovo, si cinse il capo di alloro e tornò al Branco, tra il tripudio dei suoi. Cominciò una nuova era di Pace.

lunedì 26 ottobre 2009

Dio non esiste. E inoltre è anche stupido.

Oggi sono salito sulla collina, e mi sono trovato a guardare verso sud, cercando la vecchia Torre.
Mi sono trovato immobile, immerso in un silenzio irreale, a cercare la vecchia Torre con lo sguardo, sul crinale della montagna a sud. Ma dal mio osservatorio non sono riuscito a capire dove fosse; era la prima volta che salivo su quel colle, e non conoscendo nemmeno i dintorni del posto, non sono riuscito a trovare riferimenti per orizzontarmi. Stava calando la sera.
Molto tempo fa salii sulla montagna a sud in cerca della Torre, dopo aver letto vecchie storie che narravano di uomini e ragazzi del posto. Una di esse raccontava di un amore.
Una ragazza ed un ragazzo poco più giovane di lei, appena adolescenti, compagni di giochi da sempre, erano arrivati a quell’età nella quale il gioco si complica e si comincia a fare i conti col vecchio demone del desiderio; la ragazza lo aveva già capito, mentre lui era ancora acerbo di queste cose. Venne la guerra e i due si dovettero separare; lei lo aspettò, amandolo in cuor suo e desiderandolo ardentemente ogni giorno di più. Invano. La guerra si prese il ragazzo e alla giovane, ormai in età da marito, non rimase che una tristezza infinita.
È una delle tante storie che narra, sostanzialmente, di come siano ingiuste le cose del mondo.
Quando lessi della vecchia Torre rimasi profondamente affascinato da quelle storie – quella che ho riferito ed altre, romantiche come quella – e sapendo che sulla montagna non c’era in realtà traccia di paesi o villaggi, mi venne la curiosità di sapere quanto esse avessero un fondo di veridicità, magari da un passato più lontano – o se l’autore avesse solo usato i nomi dei luoghi inscenandoci le sue storie e prendendone a prestito un po’ della magia.
Ma il tempo passò, e la cosa rimase latente.
Oggi sono rimasto immobile a guardare verso sud, come instupidito.
Nel frattempo sono successe delle cose.
Per un caso strano, per un gioco di cose che hanno sempre a che fare con l’ingiustizia, io salii sulla montagna in cerca della Torre qualche tempo dopo, effettivamente; e quando penso a quel momento, provo orrore e ribrezzo.
Doveva essere novembre, ricordo freddo e tracce di neve. Avevo bisogno di camminare, di pensare, di stare solo, e lasciai la macchina molto lontana dalla vetta della montagna, e iniziai a salire a piedi.


Mi avevano detto che quella strada era stata da poco costruita con l’intento di superare la montagna stessa (proprio in prossimità della vecchia Torre) e di collegare le due cittadine ai piedi di essa, sui due versanti, così “vicine” tra di loro ma così distanti, in effetti, dato che tutte le vecchie strade non permettevano di andare da una città all’altra se non facendo un lunghissimo giro ai piedi della montagna stessa, oltremodo stretta ma lunghissima alla base, a guisa di una lama gigantesca che si erge dal terreno verso l’alto dividendo le città.
Ma i soldi per la costruzione della strada erano finiti presto, e i lavori si erano interrotti nel mio versante appena prima del crinale, mentre sul versante sud non si erano neppure iniziati.
Così, salendo a piedi, mi ritrovai presto nella parte di strada rimasta sterrata, poi in quella dove nemmeno le paratie erano state ancora costruite, poi ancora, proprio dietro una grande curva, nel bosco fitto, dove la strada non era mai arrivata. Proseguii comunque per stradelli, fino alla vetta della montagna, e lì passai un po’ di tempo a osservare le cose e le poche persone (escursionisti come me) che trovai lungo il cammino.
Doveva essere novembre. L’unica cosa vera fu il perché ci andai.
Ci andai perché non ne potevo più di stare al mio posto; avevo bisogno – credevo di avere bisogno – di cercare un altro posto, un posto non mio, da far diventare mio.
Non so se avete mai provato questa cosa. Più o meno improvvisamente, a un certo punto, vi sentite insoddisfatti, spaesati, sentite che i traguardi che avete raggiunto non sono più i vostri. Vi sentite forti come un leone e decidete che il mondo, quello che conoscete, non ha più bisogno di voi, né voi di lui, e fate per andarvene. Non so se avete mai provato.
Non so se avete mai provato a sfidare il vecchio demone del desiderio.
Quella mattina decisi così, feci per andarmene. Sapevo esattamente quello che lasciavo, sapevo cosa desideravo, non sapevo niente altro. Mi sentivo totalmente fuori dal mondo. Feci per andare; e ci andai, alla fine.
Poi sono passati gli anni. Ho perduto pezzi di me stesso per strada, ho trovato altri pezzi di me stesso. Sicuramente ho seminato e raccolto dolore, forse più di quello che si semina e si raccoglie normalmente quando si sente di vivere una vita normale. Che non so cosa sia, in fondo.
Ho cambiato radicalmente idea su cosa sia il mondo, però. Che strano. Ho perduto ogni riferimento a qualunque elemento metafisico, ho cominciato a pensare che il mondo sia realmente solo fisica e chimica, e che di tutto il resto non abbia senso parlare. Ho maturato questa idea, vi giuro, solo pensando alla violenza che il mondo raccoglie. Non è possibile che una coscienza universale che muova tutto permetta questo.
La distanza tra me e le cose è diminuita, quella tra me e le persone è aumentata. Quella tra me e la coscienza universale è diventata infinita.
Se volete chiamarla Dio, questa coscienza universale, forse facciamo prima; io preferivo parlare di un demiurgo, piuttosto, ma fa lo stesso. Per una svista colossale, lì per lì ci ero cascato, avevo pensato che fosse ragionevole rivolgersi ad un essere infinitamente più sapiente di me, che mi aveva creato e che in fondo mi voleva un sacco di bene, che non si faceva vedere né sentire (ma aveva i suoi buoni motivi per farlo) (ce li aveva?) e che mi prometteva la vita eterna con tanto di paradiso se rigavo dritto. Rivolgersi a lui per ringraziarlo e per pregarlo. Ragionevole.
Non ti viene il dubbio, guardandoti intorno un attimo, che questo signore sapiente, invisibile e grande venditore di felicità (futura, però, incidentalmente…) sia un pochino distratto e superficiale? Ok, si fa per dire, chiaramente. Perché dovremmo proprio parlare del dio delle nostre parti, giustamente? Ce ne sarebbero molti altri, e ben diversi, se proprio volessimo aprire un discorso serio… Quetzalcoatl? Ma se qualunque dio ci avesse progettati così come siamo, mischiandoci alla violenza che si genera anche solo quando chi nasce con gli occhi neri comincia a desiderare di averli azzurri – mica le guerre –, allora questo dio sarebbe stato oltremodo stupido.
Lasciamo perdere, davvero.
Per essere seri, non parliamo di nessun dio, per carità.
Se volete, parliamo di qualcosa di infinitamente distante, soprattutto come livello di coscienza. Così distante da non poterselo immaginare, figuriamoci parlarne.
Così distante che probabilmente o si è dimenticato di questi quaggiù per distrazione, o non ci ha proprio registrati, perché così come siamo, siamo probabilmente insignificanti per lui. Insignificanti.
Ho immaginato che il mondo, bello com’è, sia venuto fuori da qualcosa di molto ben progettato, in realtà. Peccato però che abbia questi pochi piccoli difetti insopportabili: violenza, caducità, ignoranza quella cattiva, ingiustizia, e poco di più. Ho pensato che magari è una prova venuta male, o uno scarto di produzione, atterrato perché difettoso. Ma lasciato distrattamente a funzionare finché qualcuno non si accorgerà del problema, o fino alla sua fine fisiologica.
L’unica spiegazione plausibile, alla fine mi pare proprio questa: che il mondo sia uno sbaglio; un errore prodotto da un demiurgo la cui coscienza e la cui logica non  ha nulla a che fare con la nostra, non è rapportabile in nessun modo alla nostra sensibilità e alla nostra esperienza. Muro.
Si dice infatti che dio sia fatto a immagine e somiglianza dell’uomo; o viceversa, non conta. CVD.
PS. Quanto al desiderio, che vi sembra una cosa così calda, voi forse non sapete che in realtà viene dal freddo siderale, e che vi succhierà tutto il calore che avete, se ne avete. Ma non potrete farne a meno.

mercoledì 14 ottobre 2009

Un amico

Si cambiano idee e pelle, si alternano sensazioni.
Al mezzo della vita si comincia a guardare indietro con una certa forza; si comincia a meravigliarsi davvero.
C’è una persona che ho sempre tenuto nel cuore, da che la conosco, che ho sempre ammirato in modi diversi, e che forse non ho mai saputo cogliere fino in fondo, come avrei dovuto.
Di certo, so che ci piacciono le stesse cose. So che lui è molto più intelligente e sveglio di me, più capace intellettualmente. Lui è andato molto più avanti; è come se la sua testa avesse il doppio o più dello spazio e della velocità sui quali può contare la mia. Lui ha saputo realizzare gran parte dei suoi desideri e delle sue aspettative, io di sicuro meno. Però ci piacciono le stesse cose, e questo basta.
Da qui in poi, arriva il mistero dell’amicizia, che mi pare stupido pretendere di definire. Forse è una di quelle cose talmente complesse che qualcosa sfugge, o talmente semplice che ci sfugge, allo stesso modo.
Così, con lui è sempre stato altalenante il senso dello stare bene insieme, del condividere cose, del prendere e del dare. Ma solo qualche giorno fa ho notato che è uguale a me anche in questo: che quando è grigio, basta chiedergli (in qualche modo) di parlare di qualcosa che a lui piace, e lui si illumina.
E abbiamo parlato, e il discorso è andato avanti, e abbiamo condiviso ancora una volta il meravigliarsi delle cose passate. Insieme. Dopo molto tempo che non succedeva.
È in quei momenti che ti chiedi il perché dell’altalenare della vita e delle sensazioni. Perché si cambia? Perché si cambia idea, perché si accusa, si ama e si ferisce e si dà gioia e piacere, e si toglie gioia e piacere? È forse una questione di intelligenza? O è solo l’esercizio della libertà? O cosa?
Non è importante chiederselo, lo so, lo capisco. Siamo in gioco, dunque giochiamo, non ci sono problemi. Ma è la meraviglia che conta più di ogni altra cosa.
Meraviglia viene da mirare (”mirabilia”), una cosa mirevole; ma in italiano c’è anche miraprendere la mira. Meraviglioso, no?
Col mio amico sto bene. Più che ci penso e più che decido che una costante dell’amicizia è la meraviglia.

Colpa. E delitto.

La colpa è quando uno fa qualcosa di sbagliato, ma lo fa involontariamente.
Il delitto è quando uno lo fa apposta.
Queste sono le definizioni del vocabolario, ma io credo che il primo sbaglio sia nelle definizioni stesse.
Non lo vedete anche voi? Ma, ditemi, come si fa a definire che qualcosa è sbagliato? Sbagliato per chi?, secondo quale regola? Devo dare altre spiegazioni per farvi capire, per farvi vedere il nonsenso?
Non ditemi che l’arbitro è il senso comune; il senso comune è solo la media di come ragiona la gente; peccato, però, che la gente ragioni con miliardi di teste diverse, dal bianco al nero, dal bello all’orrido, dal duro al molle, dal pratico al teorico, da ogni estremo al suo opposto.
Una cosa sbagliata per principio, come la colpa, ci condiziona per tutta la vita.
Dai, trovatemi uno che se ne sia saputo liberare in tempo, prima di massacrarsi da solo. O un pazzo, o un genio, di sicuro.
Io ho quasi quarantaquattro anni, sono nato in questo posto, tra gente che mi sembra normale. Ho sentito nominare – anzi, sono stato in grado di valutare – per la prima volta il concetto di senso di colpa che avevo ventitrè anni. Lo ricordo perfettamente. Lui si chiamava Martinez, e a un certo punto mi disse, cambiando discorso, all’improvviso: “Non dare ascolto ai sensi di colpa: ce li abbiamo tutti, condizionano la nostra vita e ci avvelenano. Non dargli mai ascolto. Vivi serenamente, sii giusto e fai quello che sai fare, ma non dare mai peso ai sensi di colpa. Liberatene”.
Disse così, disse “liberatene” perché era normale che loro si fossero già impossessati di me, evidentemente. Poi Martinez sparì per tornare in America Latina, dove era nato. Mi regalò un flauto di canna fatto con le sue mani, prima di partire. Sono passati più di venti anni, e io lo vedo ancora là, seduto a quel tavolo, mentre mi diceva queste cose.
Eppure…
Eppure la vita è andata avanti, e se io sia stato giusto o meno, non posso saperlo; anche perché – al solito – dovrei per un attimo abitare nella testa di ognuno per giudicare e, così, per saperlo. La vita è andata avanti, io ho continuato per tutto questo tempo a portarmi nel cuore le parole e i fatti che Martinez mi aveva insegnato in pochi attimi; ma, senza neanche pensarci troppo, non posso proprio dire né di aver imparato, né di aver capito.
Ho mescolato perfino l’amore con la colpa. Ed ora, mentre scrivo, mi accorgo che non riuscirò mai a trasmettere questo pensiero fuori di me, forse perché è talmente assurdo che non ha senso di per sé.
Non lo so, davvero; ma sono sicuro di aver temuto fallimenti per colpa mia, di aver avvertito colpe per le quali ho gettato la spugna o mi sono castigato da solo; peggio ancora, di aver rinunciato o fallito in pieno per non aver colpe.
Una accusa di colpevolezza è una delle armi migliori per predominare, insieme alla retorica, arte sopraffina, studiata apposta, quasi si direbbe, per quel fine. Tutt’ora ci casco, nonostante tutto. Tutt’ora mi lascio incolparedecidendo che, sì, potrebbero anche avere ragione; e così mi arrendo, scivolo nella depressione, decido di castigarmi senza deciderlo, cerco un rimedio che non è quello che dovrei trovare io.
Non dirò che, al contrario, quello che ci vorrebbe è puro cinismo, certo, ma dico senz’altro che incolpare e lasciarsi incolpare sono due tra le cose più stupide e insieme perfide che si possano infliggere al nostro prossimo e a noi stessi.
Mille altre cose si potrebbero ancora dire, su tutto questo, e lo sapete bene; ma si deve prima mettere in pratica la cosa basilare senza la quale tutto il resto non ha senso, la più difficile da fare, in assoluto: cancellare la colpa dalla nostra testa.
Sentirsi in colpa, quello sì che è un delitto.

domenica 11 ottobre 2009

Abito, abitare e abitudine

Abito, abitare e abitudine sono la stessa parola.
A me capita spesso di affezionarmi a un abito, e di indossare quello, o uno simile, per giorni e giorni, se non per una intera stagione; così, non per abitudine, ma per volontà, porto addosso qualcosa che alla fine diventa un’abitudine.
Qualche volta è capitato che un abito, comperato svogliatamente o regalatomi, non mi piacesse lì per lì; ciononostante magari l’ho indossato qualche volta, finché ho preso a indossarlo più spesso, poi sempre. Anche lui è diventato un’abitudine.
Sull’abitare che diventa abitudine dico questo: che non abbiamo quasi mai particolari motivi per voler bene al luogo dove si abita, dove si risiede, se non per il fatto stesso che ci abitiamo; così si fa l’abitudine ad abitarci, e questo ci piace. Volenti o nolenti, direi.
Perché abitudine, spesso, è violentare un desiderio.
Non so voi, ma io un giorno ho alzato la testa e mi sono risposto così, a una domanda che mi girava dentro da un po’. Mi chiedevo come stessi sopportando, in quel periodo della mia vita, di vivere lontano da casa, per lavoro, tra gente sconosciuta, per un motivo che in fondo non capivo, tra molte difficoltà, con una casa bellissima, tutta mia, lontana centinaia di chilometri che mi aspettava, e non sapevo assolutamente per quanto mi dovesse aspettare ancora.
Mi risposi che avevo semplicemente fatto l’abitudine a quella vita, che ormai era diventata la mia. Volente o nolente. Una parte della mia volontà, del mio desiderio, era stata in qualche modo trasformata.
Quella trasformazione, a volte, è indolore. Non sei più tu, in fondo, il tuo desiderio non è più lo stesso, ma non te ne sei accorto. Adesso sei uno diverso, che ha cose diverse e vive come prima, quasi senza accorgersene. Ma questo non toglie che ti hanno fatto una violenza – o che te la sei fatta, da solo.
Altre volte, poi, mi è capitato di vivere la stessa sensazione: riconoscersi trasformato, da una parte rassegnato a non cercare più la soddisfazione di un desiderio, dall’altra in un abito diverso, a vivere un’altra vita, comunque una vita, non più bella o più brutta della precedente. Così non ho mai potuto decidere se fossi stato vittima di qualche violenza o di qualche forzatura; ho potuto però pensare, semplicemente, che per l’ennesima volta non ero più io.
Si fa l’abitudine alla differenza, al male, al dispiacere.
Poi si abita, quella differenza, quel male, quel dispiacere, senza più accorgersene, come se fosse sempre stato nostro.
E si diventa quella differenza, quel male, quel dispiacere, per tutta la vita, se non arrivano altre differenze, altri mali e dispiaceri a strapparti via di nuovo.
Io credo che non ci sia cosa più grande del desiderio.
Io credo che abitudine sia desiderio violentato.
Io credo che sia una grande violenza imporre – e imporsi – abitudini.
Ma se per voi il desiderio non conta, fate come se non avessi detto nulla.