giovedì 9 giugno 2022

Babbo Moreno

La sua storia è finita oggi. È durata 30.844 giorni.

Più di trentamila giorni di esperienza, svaniti nel nulla, come sempre; ma sento come un assurdo conforto nel fatto che adesso la sua storia è davvero completa, tutta davanti ai nostri occhi, perfetta, chiusa, inviolabile.

Come sempre più spesso mi succede, credo adesso di aver pensato di lui cose essenzialmente lontane dalla realtà dei fatti.

Mi sono reso conto solo in questo ultimo mese che la sua semplicità (sì: semplicità) era tutt'altro che una macchia. Se rimetto in ordine gli eventi, il suo modo di gestire le cose, la sua sensibilità, il rispetto che riusciva a ottenere dalla gente nonostante certi aspetti istantanei del suo carattere brontolone e quella che credo fosse la sua visione del mondo, devo ammettere che la sua semplicità fosse in effetti la sua forza. Una forza invidiabile, per me, adesso.

Tra le poche testimonianze dai pochi parenti e amici di famiglia, qualcuna di queste mi ha sorpreso. Qualcuno lo ha ricordato con un affetto che mi ha lasciato senza fiato.

Ma perché io l'ho sempre visto da dentro la famiglia, e non ho mai colto il suo lato più perfetto, quello che mostrava fuori, agli altri, quando dispensava a chiunque ne avesse bisogno lavoretti, favori, consigli, benevolenza. Era uno che sapeva fare certe cose, e la gente lo cercava anche per quello.

Aveva una sua vena comica, e soprattutto amava i bambini. Non avevo mai capito questo suo stare bene coi bimbi, intrattenerli con gusto, farli divertire, inventare storie, finché non è arrivato l'ultimo dei Tognelli, Leto, che è stato con lui solo 1.300 giorni esatti, per la sua più grande soddisfazione.

Lui raccontava storie, sì.

Chi lo ha conosciuto si è divertito fino allo sfinimento nell'ascoltare le mille storie di Palermo, dove a cavallo tra gli anni '50 e i '60 trascorse 18 mesi come militare di leva, e un sacco di altre storie popolari, tutte debitamente storpiate in qualche modo, poesie fatte di pure parole, come anche giochi di parole puri, parole semplici (il suo bambinare), canzoni (con diverse parole inventate, anche giocosamente), e mille concetti sbagliati che lui tramandava ignaro, e il mondo si chiedeva se non fosse il caso di correggere le proprie leggi per far diventare giusti quei concetti.

Raccontava storie, si raccontava storie e presto o tardi le faceva diventare una sua realtà, incastonandole mirabilmente nel mondo reale.

Era nato in una casa in mezzo al bosco sopra Piteccio che lo aveva ospitato solo per sei mesi, e non l'aveva mai più rivista. Una volta io sono andato a cercarla, quella casa, e ne ho potuto fotografare solo le rovine. Ma lui non sono mai riuscito a riportarlo là.

Poi aveva vissuto gli anni più belli della sua vita in piena seconda guerra mondiale nel prato tondo di Mercatale, a Cecafumo. Mille storie in quel prato, raccontate fedelmente mille volte come un cantastorie che canta, però, se stesso. Non conosco nessuno della mia generazione che abbia dato modo di credere di aver vissuto una infanzia così intensa in un certo posto, con certe persone.

Undici anni fa quel prato me lo fece vedere, ed era già, ovviamente, abbastanza diverso da come lui lo ricordava.

Eccolo qui, Moreno, al centro, tra il fratellino Silvano e il fratello maggiore Mauro, fotografati in quel prato verso il 1943.


E ancora: sua moglie, mia mamma; la sua famiglia, che nel bene e nel male è stata una famiglia che non si può non dire fortunata.

Sua moglie la cui assenza lui, forse, non ha tollerato dentro di sé oltre quei circa diciotto mesi in cui le è sopravvissuto. Che strano: li ha portati via la stessa malattia, praticamente nello stesso modo.

Qui riprendo il mio pensiero iniziale. Non saprò mai cosa fosse effettivamente mamma Bruna, per lui. Sono sicuro che fosse un pilastro, sì, ma non potrò mai più coglierne sfaccettature. Nei dodici mesi di malattia di mamma lui non ha mai chiesto cosa avesse, come non ha mai chiesto cosa avesse lui stesso durante la sua. Ecco un lato della sua semplicità, che esce fuori sfacciatamente, in un modo assurdo che fino a ieri ho ritenuto scandaloso, e solo oggi saluto come un inno al candore, alla lucida disperazione che rappresenta il modo meno peggiore di sopportare il mondo, alla saggezza di chi non spreca nessuna risorsa invano perché sa che il mondo è meglio affrontarlo così.

〰〰〰

Babbo, ti ringrazio tanto per tutto quello che hai fatto per me, e hai fatto davvero tanto. Se ci penso bene, se guardo fino in fondo, tu non mi hai mai ostacolato in niente; hai sempre favorito la realizzazione di quello che ti ho chiesto, senza condizioni, fidandoti di me, al limite della decenza, a volte. E così te ne sei andato, senza chiedere niente, davvero, senza disturbare nessuno. Lasciandomi senza fiato.

Tra un attimo il mondo ti avrà già dimenticato, e avrà già dimenticato me, tutti noi, questi anni, e poi l'umanità tutta e il suo tempo. Ma noi abbiamo vissuto il nostro tempo e abbiamo imparato qualcosa; abbiamo giocato, abbiamo lavorato, abbiamo camminato insieme. Dunque è valsa davvero la pena di vivere tutto questo.



sabato 21 maggio 2022

Cose storte (continuazione di "La mia coscienza")

Tutto il mondo sta tra 0 e 1 sul segmento di retta reale individuato da quegli estremi, dicevamo ieri.
Ma adesso penso a uno scarabocchio.
Se il segmento e la retta reale sono quanto di più esatto, coerente, efficiente e asettico si possa pensare, cosa pensare dello scarabocchio?
Guardo da vicino.
Ok, è curvo, informe, ritorna su se stesso senza regolarità, forma anelli e intrecci senza regola; ma se lo guardo davvero da vicino mi sento sempre più autorizzato a pensare che in fondo, anche lui, abbia la stessa stoffa del mio segmento originale. Solo che... Curva.
Ma il suo curvarsi è un pregio?
Vediamo.

Lo scarabocchio potrebbe essere il germe della scrittura.
Allora ci sono due livelli: macroscopicamente, esso comincerebbe a rappresentare qualcosa di comprensibile, istantaneamente, a chiunque. Il segno. E al contempo, nella sua intimità conserverebbe tutte quelle meravigliose proprietà che abbiamo attribuito al segmento, con qualche aggiunta: il fatto di poter curvare e impegnare così dimensioni diverse da quella unitaria.
Quest'ultima capacità gli conferisce insieme sporcizia, disordine, ma anche maggiore dignità.
La curvatura introduce piani di astrazione ancora superiori (ma in quel punto, quanto curva? E curva formando concavità o convessità?): le tangenti, il concetto di derivata, il concetto di angolo.
Già! Gli angoli!
Le curvature estreme, repentine, singolari, sono angoli.
Lì la tangente non esiste, e lo scarabocchio si ribella in quel punto ad ogni legge o regola ortodossa.
Lo scarabocchio più eclettico è poi quello che non solo curva, non solo forma angoli, ma ha il coraggio di... spezzarsi.
Pensa: pensa prima al tuo segmento ordinato, preciso, obbediente, ligio al suo dovere, che a un certo punto concepisse di volersi riprodurre per scissione, sganciando il legame tra due punti contigui per formare due copie di se stesso, identiche, in tutto e per tutto, potendo mettere in corrispondenza biunivoca tutti i suoi punti originali sia col primo che col secondo segmento figlio. In scala.
Così lo scarabocchio: gli basterebbe sganciare due punti contigui, magari quelli in prossimità di un angolo, per scindersi in due parti, questa volta non esattamente uguali, però, in generale, a causa della curvatura.
Ma, aspetta: non dicevamo che tra un punto e un altro ce ne sono infiniti?
Allora, che vuol dire "sganciare il legame tra due punti contigui"?
No, non funziona. Non ci sono punti contigui. Per quanto ti possa sembrare irreale, non ci sono punti contigui su un segmento, o su uno scarabocchio, perché tra ogni coppia di punti che individuerai, per quanto vicini, troverai sempre infiniti altri punti.
E allora, quando produci il tuo "taglio", che succede? Cosa rimane a destra e a sinistra? Una infinità di punti liberi che si avvicinano indefinitamente al punto di taglio, senza toccarlo mai. Questa sì che è bella.
Qui le cose si fanno toste.
A volte capita che produci il taglio su un punto "noto", nominabile, individuabile, per esempio 1/2; quel punto rimarrà o a destra o a sinistra, a "suturare" la ferita, mentre dall'altra parte avrai la sequenza di infiniti punti senza più un capo che rimarranno anonimi e penzolanti. O, peggio, quanto taglierai a caso, in un punto "non nominabile", da entrambe le parti avrai una infinità di punti a reclamare una sutura, che non potrai concedere.
Queste sono le regole, nella geometria di segmenti e scarabocchi, impietose, precise, freddamente logiche.

Ma c'è altra bellezza, negli scarabocchi.
Pensa: ogni scarabocchio, qualunque forma abbia, per quanto bizzarro sia (senza tagli, però!), ha un suo codice univoco, una sua impronta digitale, un suo DNA. Puoi trovare (se ci studi un po') una formula che lo descrive al completo, o se vuoi una funzione. O anche (meglio!) una trasformata di Fourier.
Queste ultime non sono altro che sequenze di numeri che, messi nel tritacarne giusto e dato il colpo di manovella, producono lo scarabocchio del caso; che, a quel punto, non è più anonimo ma viene intrappolato, schedato e messo in catalogo.
Se ti sembra strano, non proverò a romperti la testa qui con altri discorsi; piuttosto, ti rimanderò qui per farti toccare con mano e vedere con i tuoi occhi.

E la mia coscienza che c'entra con tutto questo?
C'entra, c'entra.
Ora che concepisco bizzarrie di infinità non più solo in riga bensì affette perfino da curvature, anelli intrecciati, angoli, spezzature senza capo né coda e mille altri nodi possibili, credo di essere ancora di più a casa mia, e non trovo più strano il mondo, e mi scandalizzo sempre meno di quanto mi succede dentro e fuori.

venerdì 20 maggio 2022

Amore, morte e stupidità

C'è una legge per me empirica ma ampiamente sperimentata nel corso della mia esistenza.

Noi (tutti noi, probabilmente anche animali e piante) proviamo affetto e empatia, quando li proviamo, con intensità crescente al diminuire della distanza tra noi e l'essere o oggetto amato.

Credo si potrebbero fare numerosi esempi; ma il primo approccio sarà senz'altro la constatazione che proviamo orrore per chi muore nelle nostre vicinanze mentre rimaniamo praticamente impassibili constatando che nel resto del mondo ogni secondo accadono morti atroci per i più atroci motivi.

Per quanto posso capire deve trattarsi di una caratteristica imposta dall'evoluzione; forse una difesa di qualche natura, del tipo: daremmo fuori di testa se mai dovessimo farci carico di tutte le atrocità del mondo, oltre quelle che ci accadono sotto gli occhi.

E ora un esempio contrario: com'è possibile perdere la testa innamorandosi di una persona che è entrata nella nostra sfera di contatti, ignorando del tutto le miriadi di persone tutto intorno, tra le quali, statisticamente, sarà di gran lunga più probabile trovare un partner più bello / colto / intelligente / interessante / attraente?

Per quanto posso capire deve trattarsi anche qui di una difesa, ma questa volta del mondo: per non perdere tempo (la natura vuole andare al sodo, vuole continuare la specie facendoti accoppiare non importa molto con chi) ti lega quanto basta al primo essere che ti capita a tiro e al quale tu capiti a tiro (spesso bisogna essere in due a piacersi) e amen.

Per il resto, più un essere ti sarà lontano (non solo spazialmente, ma anche culturalmente, etc.) più tenderai a ignorarlo se non a disprezzarlo. Ditemi che non è così, nella media.

Ed ecco il punto. Ok, questi atteggiamenti sono probabilmente dettati da fatti che hanno a che fare con l'evoluzionismo; ma la stupidità della cosa in sé come la gestiamo?

Per il primo esempio, dov'è la logica nel non provare orrore considerando tutta la malvagità del mondo riversata su soggetti che non sono prossimi a te? Eppure, sai benissimo come funziona l'orrore di cui parliamo. Come fai, ragionevolmente, a tenerti al riparo dal considerare tutto quel dolore? Come fai a tenere spenta la logica che ti obbligherebbe a quella constatazione?

Per il secondo esempio, dov'è la logica nel provare affetto solo per chi ti è vicino e per chi conosci (già)? Che il tuo intento sia di convenienza, di calcolo o di amore/affetto disinteressato, come può la distanza discriminare il soggetto della tua attenzione? Non parlo solo del mondo di oggi, dove le distanze vanno scemando, ma farei il discorso anche per un villaggio dei tempi che furono, dove comunque una possibilità di contatto più ampia doveva pur esserci.

Perché prestiamo fiducia e credibilità solo a chi si trova entro la nostra sfera di azione, e pensiamo che il resto del mondo non ne sia degno? Perché ci sembra che sia più ingannevole un essere che non abbiamo ancora conosciuto, mentre l'esperienza ci urla addosso ogni giorno che perfino gli amici, spessissimo, lavorano contro il nostro interesse?

Sì: io trovo illogico tutto questo.

Sono certamente soggetto alle stesse leggi evoluzionistiche del resto del mondo, e a tutta prima mi comporto esattamente come gli altri; ma non posso fare a meno di chiedermi ogni giorno come sia possibile che la stupidità prevalga praticamente sempre sulla convenienza comune.


La mia coscienza

Tutto il mondo sta tra 0 e 1.

Il segmento di retta reale i cui estremi siano 0 e 1 contiene davvero ogni possibilità, per quanto sia grande l'universo o il numero di multiversi possibili, compreso quelli della tua immaginazione, della mia e di tutto il resto.

Nota che si chiama retta reale: evidentemente qualcuno l'ha sentita più reale di qualunque altro oggetto matematico relazionabile a numeri "inferiori" (naturali, relativi, razionali), e deve ben averci trovato corrispondenze proficue con la realtà, visto che subito dopo ha chiamato immaginari i numeri dell'insieme subito più complesso.

Sì, lo so: sono solo etichette. Ma ogni nome ha un suo perché, e questo mi sembra perfino azzeccatissimo.

Ora, prova a immaginare: cammini su quel segmento, sei abbastanza piccolo da poter osservare la sua trama da vicino, e hai una vista ineccepibile. Ti trovi, diciamo, verso la tacca del 1/3; e ti cominci a spostare verso lo 0.

Ti aspetti di trovarvi una singolarità, quantomeno: lì il segmento finisce, non c'è nulla oltre lo 0, nel verso negativo. Ti avvicini, curioso. Passi l'1/2, passi l'1/4, poi, più avanti l'1/10, e procedi ancora, spedito.

Arrivi in vista del tuo traguardo. I tuoi passi si fanno più lenti, per guardare meglio. Via via che avanzi verso lo 0, è come se la strada si dilatasse sotto i tuoi piedi: più passi fai, più la strada fa emergere nuovi dettagli sconosciuti, sempre più piccoli, sempre più densi alla tua vista.

Allora provi ad accelerare: lo 0 è ancora lì, davanti a te, ma la strada si dilata sempre di più, si sdipana pur rimanendo della stessa lunghezza: passi 1/100, passi 1/1000, passi 1/100.000, e via via sempre più vicino, ma ti rimangono pur sempre infiniti passi per toccare lo 0.

Ti rendi conto che tra te e lo 0 ci sono effettivamente infiniti passi.

Ti torna in mente il concetto di epsilon, di intorno: qualunque punto tu scelga a fare da "confine" del tuo intorno dello 0, qualunque sia in altre parole il tuo punto di partenza, tra quel punto e lo 0 ci saranno sempre infiniti punti. E tra ognuno di quegli infiniti punti e lo 0, di nuovo infiniti. E così via.

Non basta.

Se il tuo segmento fosse stato fatto di numeri razionali (le frazioni, ok?), ti saresti accorto che tra un numero e l'altro ci sarebbero state delle fessure. I numeri razionali non sono continui. π è reale, non si può rappresentare con una frazione: se ti fossi sporto a curiosare nel suo intorno, poco più su del tre (che sta su un altro segmento, ok), avresti notato che sulla retta razionale al suo posto ci sarebbe stato un buco. Piccolissimo, ma un buco.

Il tuo segmento reale è invece denso. Non ci sono buchi. Lo sai cosa significa? Che tra ogni coppia di punti arbitrari c'è sempre almeno un altro punto. Quindi ce ne sono infiniti.

E come fai a chiamare reale una cosa così? Come fai, dai?

Il mondo è forse liscio, denso e senza buchi?

Il mondo no, di sicuro, ma le sue possibili configurazioni (che sono il prodotto del caso) quelle sì.

Adesso lo avverto chiaro. Mi sporgo a curiosare nell'intorno del mio zero e trovo, compatte, uno sterminio di possibilità tra le quali la mia realtà, una sola, misera, infima; la guardo, questa realtà, e capisco immediatamente che la probabilità che si realizzasse (mettendoci dentro i miliardi di anni che hanno gli atomi che mi formano) era inconcepibilmente minima. Prossima allo zero, appunto, e vicinissima ad esso. Più vicina di quanto io possa mai realizzare.

La metafora può continuare quanto si vuole: posso voltarmi dall'altra parte, correre verso l'1, scorrazzare su e giù, avanti e indietro, esaminando con la mia lente dell'intelletto ogni punto del segmento, speculandoci sopra, cercando associazioni, cercando di metterlo al suo posto nel mio schema mentale; per poi accorgermi che l'1 non è che lo speculare dello 0, già ridotto ormai a qualcosa di più comprensibile dopo le mie scorribande.

[Un attimo: ma se 0 e 1 sono speculari, allora l'estremo che cercavo è forse il centro? No, no: perché anche 1/2 ha il suo intorno che, diviso in due parti che guardano verso 0 e verso 1 riproduce esattamente due volte il mio segmento iniziale, fatto degli stessi infiniti punti, avente le stesse infinite proprietà e gli stessi comportamenti, tutti in relazione biunivoca, punto per punto, uno per uno; e questo è il bello degli insiemi infiniti, dove lo spreco non è dato.]

Distanze infinite tra ogni coppia di punti, anche se essi "sono in vista". Baratri di possibilità tra ogni evento e il successivo, e nessuna fessura nella quale poter cadere.

Questa è prigione e azzurro di cieli aperti, dannazione e liberazione, una trappola fatta di pura libertà.

Ed io non sono dentro e non sono fuori, e sono dappertutto, finché esisterà la mia coscienza.



sabato 14 maggio 2022

La teoria dei giochi di Wisława

No, non c'è nulla oltre quella soglia. Inutile cercare pretesti.

E questo apre scenari interessanti.

Ora: la cosa più interessante è senza dubbio il tempo che devi sprecare per capirlo.

Per convincertene.

Per ammettere che non può che essere così.

Per riconoscere che non ci avevi capito niente, per acquietare il senso immane di spreco, per sentirti normale.

Quando, sveglio, ci arrivi, capisci, realizzi, fai tuo questo nuovo modo di vivere il mondo, allora ti viene addosso una valanga di conseguenze; che sommergendoti, schiacciandoti, ti libera da tutti i tuoi problemi.

Tutti, ho detto. Tutti.

Se sei sveglio, se realizzi bene: tutti.


Mi dicono che sembriamo essere programmati per coltivare credenze, e di conseguenza per essere stupidi quanto basta per sopravvivere – o almeno provarci.

Mi verrebbe da prendermela con il mondo, ma il mondo è esattamente il mio pensiero.

Dunque mi conviene riderne. Con leggerezza – a che vale prendersela, in questo contesto?

Oh! Ho detto "conviene"!

Solo poco tempo fa avrei subito fatto appello a una morale, per dubitare della convenienza di quel concetto (strano giro di parole!).

Oggi no. Non c'è niente di sconveniente nel perseguire ciò che conviene; non è vergognoso, non è amorale (eccone un'altra!).

Troppe volte la vita mi dimostra che le cose fatte bene sono quelle che ti portano ad estremità.

Ami un gesto (ossessivamente, magari, e non è un problema) se lo pratichi fino alla sua estremità.

Ti senti al sicuro solo se hai fatto di tutto per capire, sperimentare, imparare quella cosa, senza poter fare niente di più.

Non amo le persone che non praticano le estremità.

Posso fidarmi di chi spreme il dentifricio dalla metà del tubetto, ma amo veramente chi lo spreme scrupolosamente dal fondo. Pedissequamente. (Stupendo!)

La sola scusa per tollerare la stupidità del mondo è la sua complessità. Ma il fatto che si possa essere in grado di concepire questo mi dà già un sollievo enorme. Mi ritengo fortunato.

Mille parole, ma non qui.

Allora andiamo avanti, sapendo bene che i giorni sono contati, i passi limitati, e la complessità ci sovrasta.

Ogni scenario è aperto: siamo liberi – anche se non lo siamo: è possibile ogni pensiero, gesto, astrazione, col solo limite delle nostre forze fisiche e mentali; e non rompete i coglioni, per favore, con altri discorsi: ogni astrazione, gesto, pensiero è possibile e aperto a chi voglia e possa praticarlo; e qualunque giudizio da parte di chiunque non ha alcun senso.

Io sono tutti, e non sono nessuno.