martedì 2 ottobre 2018

C.A.I.D. - Comitato per l’Abolizione delle Inutilità Dannose

Lista di cose, idee, concetti e atteggiamenti da abolire in quanto inutili e quindi dannosi:

  • tutte le automobili non elettriche;
  • il trasporto di acqua minerale in bottiglia;
  • ogni forma di credo religioso che non sia praticato esplicitamente per gioco;
  • ogni concetto di divinità, di demiurgo, di creatore e di essere superiore (singolari e plurali);
  • moltissima carta stampata;
  • l’ora legale;
  • i capelli, se non per ripararsi dal freddo;
  • farsi la barba tutti i giorni;
  • ripetere i saluti in modo ossessivo;
  • ogni dato correlato a qualcosa che su qualche computer in rete, in qualche ufficio, è presente in più di un posto, pur essendo correlato alla stessa cosa;
  • lavare la macchina, soprattutto il sabato mattina;
  • la cravatta e tutti gli altri ammennicoli similari;
  • fare uso di alcool (e droghe!) per stare bene;
  • i cimiteri, il concetto di luogo di sepoltura, il culto dei morti;
  • le cose che tieni in un posto e non sai più di avere;
  • lamentarsi;
  • le mode;
  • la monogamia;
  • l'orgoglio (bella questa, eh?);
  • la distinzione in razze;
  • cercare il senso della vita;
  • la carta igienica profumata;
  • le cose doppie, salvo se si tratta di un backup;
  • la speranza;
  • parlare, quando non si hanno cose (interessanti) da dire;
  • i messaggi vocali su WhatsApp (scrivere no, eh? Aaahh... Eravate alla guida, ok);
  • cucinare, quando il cucinare aggiunge solo un apporto ragionevolmente irrilevante di sapore.
Si accettano suggerimenti!

giovedì 13 settembre 2018

Deserto sulla terra

Il 13 settembre 2018 ho avuto la rara fortuna di assistere alla prima de Il Trovatore, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino.
È stata un’esperienza esaltante, unica, del tutto inaspettata: tutto praticamente perfetto sul piano strettamente musicale, e un colpo di genio assoluto su quello dell’allestimento scenico.
Ma, da subito, la superficialità di alcuni e lo stupido fondamentalismo di altri hanno condannato il colpo di genio di cui sopra bollandolo come qualcosa di barbaro e inappropriato, se non di scandaloso, come testimoniato il giorno dopo dal telegiornale regionale di Rai 3 che ha titolato “Trovatore al Maggio, fischi per il regista” (trascurando la parte obiettivamente ineccepibile dell’esecuzione musicale e parteggiando per quella metà della critica e del pubblico che non ha voluto o saputo cogliere l’essenza di ciò cui ha assistito).
Ecco dunque, di seguito, cosa intendo.

Sul palco, niente di quello che potevo aspettarmi: niente soldati e capitano delle guardie in armatura, niente sale del castello dell'Aljafería, niente arredi del XV secolo: solo geometrie fatte di luci e di elementi scenici mobili e componibili in continuo riarrangiamento, a suggerire scenari mentali ove la vera trama si svolge. Addirittura, in certo contesto, niente personaggi: il coro non impersona i soldati, come sempre, ma è composto di persone reali (di questa realtà), vestite in giacca nera e pantaloni, che raccolgono manichini che scendono dall’alto – i veri protagonisti della vicenda, troppo “lontani” per poter essere rappresentati propriamente dagli attori/cantanti, come sempre si tenta di fare – e danno loro vita, come raccontandoci, cantando, di loro e delle loro storie.
Tutto è distaccato e tenuto separato: sul palco non accade la trama: piuttosto, le persone che vi si muovono la fanno vivere affidandola a un platonico mondo delle idee rappresentato da manichini e geometrie in movimento, luci, simboli, dinamiche; in un’opera che, tra l’altro, contiene già un racconto nel racconto, e che quindi si separa in ulteriori livelli, aprendosi ancora di più.
Quando Ferrante (assunto qui come il narratore di tutta la storia e impersonato in Verdi stesso) apre e racconta la storia iniziale dei due figli del Conte di Luna innalza verso il pubblico due marionette, dicendoci chiaramente che i protagonisti sono in quell’aldilà intellettuale dove chi calpesta fisicamente il palco non deve arrivare.
E mi piace, mi piace molto.
L’assenza dei veri protagonisti e la presenza dei loro simulacri, che mi piace pensare come immobili, insieme all’adozione di geometrie pure anziché di scene realistiche conferisce al tutto un aspetto di pura monumentalità. Se l’opera deve essere il monumento per eccellenza, cioè ciò che ci deve imprimere nella memoria una morale in modo definitivo, in quel modo, io credo, può esserlo ancora di più.

Uno dei capolavori di questo allestimento è Azucena.
L’unica madre fra tutte le opere verdiane qui entra in scena racchiusa da una sorta di strana armatura (un traliccio metallico che sorregge un velo nero, che poi sarà rimosso), posta in mezzo a una schiera semicircolare di ceri tra loro disuguali (che ricordano da vicino la pira), il tutto innalzato su una sorta di altare cubico.
Azucena canta da dentro la sua armatura, e poi ne esce, svelando la sua vera natura; potrebbe essere una veridica, una Madonna, una creatura superumana; invece è una madre, anzi la madre.

Un altro ancora, l’idea che anche l’abito sia parte dell’interfaccia tra il vero personaggio della storia e il suo interprete sul palco: a volte, cantando, il cantante si toglie l’abito e lo tiene in mano per un po’, fino a indossarlo di nuovo; come un guscio significante, togliersi il quale, in quel momento, voglia dire qualcosa.

E tanto altro, ma vado al dunque.

Nell’unico intervallo, tra il secondo e il terzo atto, ho scambiato due parole con alcuni vicini di poltrona, che come me hanno trovato il tutto gradevolissimo; una quasi ottantenne signora dietro di me, invece, ha voluto sottolineare quanto quell’allestimento fosse fuori luogo, insulso, già visto, e soprattutto troppo lontano da come lo avrebbe voluto Verdi; praticamente ridicolo.
Ho provato in qualche modo a esporgli la mia lettura e il mio entusiasmo, ma ovviamente invano. Ha occupato i restanti venti minuti dell’intervallo a decantare quella che per lei è la vera opera lirica, i veri artisti, il gusto che ci vuole per mettere in scena un Trovatore di successo.
Ho subito pensato a lei come a un dinosauro.
Ho pensato che una volta c’erano i dinosauri, e ora l’homo sapiens.
Ma soprattutto ho pensato agli estremisti (tipo Testimoni di Geova e simili), che non lasciano spazio ad alcuna apertura, credendo di possedere l’unica verità possibile.
Avrei voluto spiegarle tante cose, e confrontarmi liberamente con lei e con la sua esperienza per trarre qualcosa di innovativo dal nostro discorso; perché con mente aperta, a 160 anni dalla pubblicazione di quell’opera, io credo che si possa e si debba applicare anche in questo caso un principio di evoluzionismo.
Basterebbe chiedersi cosa potrà essere tra altri 160 anni: i futuri registi perseguiranno ancora una lettura scrupolosa e filologica del libretto per inscenare qualcosa che forse non comprenderanno neppure più, come probabilmente non lo comprendiamo già adesso in molti risvolti?
Mi pare presunzione pretendere che l’allestimento debba essere quello pensato da Verdi – anche perché penso che Verdi, nel suo genio, debba aver lasciato molti gradi di libertà ai futuri scenografi e registi.
Il concetto di sospensione dell’incredulità mi pare dimostrante: dove finisce il mondo reale, e dove inizia il mondo della storia rappresentato? Dal momento che sul palcoscenico non possiamo avere in nessun modo una rappresentazione fedele della realtà – non fosse altro per il fatto che la gente non interloquisce cantando, normalmente – il confine (per un concetto affine a quello di intorno arbitrario in matematica) lo si può collocare ovunque si voglia. Perché allora non spostarlo il più possibile verso la storia, per mettere a fuoco da vicino ciò che conta veramente? E comunque per compiere un atto di esplorazione, là dove più raramente ci si affaccia?
Ne sia prova lo splendido quadro che si forma al temine della cabaletta più celebre: Manrico, che ha appena esclamato “corro a salvarti”, rimane immobile con la spada tratta in una specie di rallentando che congela tutto il palcoscenico in un fotogramma in bianco nero che non può essere dimenticato. La storia da raccontare è sempre fusa col modo di raccontarla: non se ne può uscire. Ne segue che nessun modo di raccontare può essere oggetto di critica oggettiva.

E infine vorrei chiedere ai dinosauri se siano proprio sicuri che il Trovatore (e l’altro 99% delle opere liriche conosciute e non) parli di amore, di morte e di altre sciocchezze, o di cosa. Perché io sono convinto che il protagonista del Trovatore (e dell’altro 99%) sia nientemeno che la stupidità; e che l’intento didascalico soggiacente sia quello di mettere in guardia lo spettatore da essa, spiegandogliela in tutte le sue pieghe
Ma è una mia opinione.
Perché, come si vede, la stupidità è anche protagonista di questo discorso, ed è circolare, onnipresente e annidata in se stessa.

PS: stamattina ho trovato questo articolo, che m’ha rincuorato parecchio. Ma attenti: i dinosauri sono sempre là, in agguato...

lunedì 12 febbraio 2018

Settima settimana

E così oggi sei al quarto giorno della settima settimana.

Penso a com'ero io, prima; prima di te.
Il tuo arrivo è coinciso con la fine delle mie paure: di tutte le mie paure.
E le mie paure sono svanite insieme a tutte le ombre di credenza che mi erano rimaste.
Credo profondamente che ogni paura, in qualche modo, sia generata da una credenza.
Saper vedere il mondo per quello che – con ogni probabilità – è, senza nessuna sovrastruttura, aiuta moltissimo a capire che non c'è niente da temere. Il dolore, sì, ok, ma basta davvero poco a farsene una ragione.

Io non lo so quanto tu sia stata parte attiva di questa specie di rinascita; ma so per certo che anche tu sei così: non hai paure, non hai credenze.
Sei positiva in tutto ciò che conosco di te, e sei un incoraggiamento costante a godersi il mondo, quanto è possibile.

Così, oggi, sono felice.
E ho molte cose da fare, e mi sento al mio posto.

Avanti così, dolce Francesca.