domenica 11 ottobre 2009

Abito, abitare e abitudine

Abito, abitare e abitudine sono la stessa parola.
A me capita spesso di affezionarmi a un abito, e di indossare quello, o uno simile, per giorni e giorni, se non per una intera stagione; così, non per abitudine, ma per volontà, porto addosso qualcosa che alla fine diventa un’abitudine.
Qualche volta è capitato che un abito, comperato svogliatamente o regalatomi, non mi piacesse lì per lì; ciononostante magari l’ho indossato qualche volta, finché ho preso a indossarlo più spesso, poi sempre. Anche lui è diventato un’abitudine.
Sull’abitare che diventa abitudine dico questo: che non abbiamo quasi mai particolari motivi per voler bene al luogo dove si abita, dove si risiede, se non per il fatto stesso che ci abitiamo; così si fa l’abitudine ad abitarci, e questo ci piace. Volenti o nolenti, direi.
Perché abitudine, spesso, è violentare un desiderio.
Non so voi, ma io un giorno ho alzato la testa e mi sono risposto così, a una domanda che mi girava dentro da un po’. Mi chiedevo come stessi sopportando, in quel periodo della mia vita, di vivere lontano da casa, per lavoro, tra gente sconosciuta, per un motivo che in fondo non capivo, tra molte difficoltà, con una casa bellissima, tutta mia, lontana centinaia di chilometri che mi aspettava, e non sapevo assolutamente per quanto mi dovesse aspettare ancora.
Mi risposi che avevo semplicemente fatto l’abitudine a quella vita, che ormai era diventata la mia. Volente o nolente. Una parte della mia volontà, del mio desiderio, era stata in qualche modo trasformata.
Quella trasformazione, a volte, è indolore. Non sei più tu, in fondo, il tuo desiderio non è più lo stesso, ma non te ne sei accorto. Adesso sei uno diverso, che ha cose diverse e vive come prima, quasi senza accorgersene. Ma questo non toglie che ti hanno fatto una violenza – o che te la sei fatta, da solo.
Altre volte, poi, mi è capitato di vivere la stessa sensazione: riconoscersi trasformato, da una parte rassegnato a non cercare più la soddisfazione di un desiderio, dall’altra in un abito diverso, a vivere un’altra vita, comunque una vita, non più bella o più brutta della precedente. Così non ho mai potuto decidere se fossi stato vittima di qualche violenza o di qualche forzatura; ho potuto però pensare, semplicemente, che per l’ennesima volta non ero più io.
Si fa l’abitudine alla differenza, al male, al dispiacere.
Poi si abita, quella differenza, quel male, quel dispiacere, senza più accorgersene, come se fosse sempre stato nostro.
E si diventa quella differenza, quel male, quel dispiacere, per tutta la vita, se non arrivano altre differenze, altri mali e dispiaceri a strapparti via di nuovo.
Io credo che non ci sia cosa più grande del desiderio.
Io credo che abitudine sia desiderio violentato.
Io credo che sia una grande violenza imporre – e imporsi – abitudini.
Ma se per voi il desiderio non conta, fate come se non avessi detto nulla.

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